UNIVERSITÀ E SCUOLA

Lauree alla patria. La via ungherese contro la fuga dei cervelli

Che il primo ministro Viktor Orbán sia sempre alla ricerca di soluzioni originali per il futuro della sua Ungheria è abitudine nota. Già famoso per le accuse a lui rivolte da molti in Europa di minare la democrazia magiara ponendo le istituzioni sotto il controllo del governo, Orbàn torna agli onori della cronaca con un metodo ‘innovativo’ per arginare la “fuga dei cervelli” che affligge anche il suo paese. Principi chiari e semplici regole di mutuo scambio sembrano essere i pilastri della nuova legge sull’istruzione superiore, che rivoluziona l’organizzazione accademica e il sistema di diritto allo studio. Studenti, volete che lo stato ungherese vi aiuti? Allora dovete aiutare lo stato ungherese. Che detto in parole povere significa questo: la nazione è in difficoltà, i soldi sono pochi, quindi è necessario ridurre le borse di studio. E, per quelle che rimangono, introdurre vincoli pesantissimi, la cui finalità è una sola: far rimanere in patria il “capitale umano” sul quale il paese ha investito. La nuova legge riduce le borse di studio da 53.000 a 34.000, con un taglio di oltre un terzo dei sussidi, compensato solo in parte da circa 15.000 nuove borse che coprono il 50% dei costi universitari.

Ma il cuore della nuova disciplina, e l’aspetto più contestato del nuovo sistema, sono i “contratti studenteschi”, veri e propri accordi con lo stato ungherese che ogni matricola, per ricevere una borsa di studio, deve firmare. La bozza standard del contratto prevede una serie di condizioni, per meglio dire vincoli, che lo studente deve impegnarsi a rispettare, pena la perdita della borsa e il conseguente obbligo di rimborsare lo stato. Anzitutto la matricola  deve impegnarsi a conseguire il titolo accademico in un intervallo di tempo non superiore a una volta e mezzo la durata prevista del corso di laurea. Ma il punto più discusso, nonché anima politica della nuova normativa, è una vera e propria ipoteca sull’avvenire dello studente: chi ottiene la borsa, infatti, deve impegnarsi, nei 20 anni che seguiranno la data della laurea, a mantenere la futura attività lavorativa in Ungheria per un periodo almeno doppio rispetto alla durata degli studi finanziati. Se lo studente viola il “patto” con lo stato perché consegue il titolo troppo tardi, sarà costretto a rimborsare metà del denaro ottenuto con la borsa di studio; se invece non rispetta il vincolo “patriottico” e non rimane nel paese per un tempo sufficiente, dovrà rimborsare la somma integralmente, e con gli interessi.

Il contratto, fortunatamente, prevede delle deroghe: la gravidanza e il puerperio sono conteggiati come periodo lavorativo, e i disabili non sono soggetti ai limiti di tempo previsti per conseguire il titolo accademico. Nel provvedimento non manca un incentivo all’incremento demografico: ogni studentessa sarà esonerata dai limiti di durata degli studi nel caso abbia almeno tre figli. La nuova disciplina ha incontrato un ostacolo nella Corte Costituzionale ungherese, che ne ha criticato i vincoli alla libera circolazione delle persone introdotti con il “patto patriottico”. Ma, come aveva fatto per la nuova, controversa Costituzione, anche stavolta il governo non è arretrato e, nonostante le vivacissime proteste delle associazioni di studenti e insegnanti, ora i nuovi contratti per studenti sono un requisito imprescindibile per iscriversi a un corso universitario con richiesta di borsa di studio.

Al di là degli aspetti manifestamente propagandistici, le innovazioni ungheresi suscitano curiosità e molti dubbi. Ci si chiede infatti come un paese con un tasso di disoccupazione intorno all’11% possa vincolare le nuove generazioni a un patto che presupporrebbe la capacità di soddisfare interamente la domanda interna di posti di lavoro. Inoltre si teme che le nuove norme possano, al contrario, essere un forte stimolo per i giovani a cercare opportunità economiche, prive di restrizioni, fuori dall’Ungheria. Resta però il problema di fondo, evidenziato dalla riforma Orbán: i soldi pubblici per garantire l’istruzione superiore a tutti i non abbienti non ci sono più. Occorre individuare dei nuovi criteri di attribuzione dei fondi, necessariamente selettivi, che siano in grado di conciliare meritocrazia e libertà.

 

Martino Periti

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