SCIENZA E RICERCA

Limiti di velocità

In un articolo apparso il 20 ottobre sul Chronicle of Higher Education e intitolato Speed Kills (la velocità uccide), Mark Taylor, che dirige il dipartimento di Religione di Columbia University a New York, scrive: “Al contrario di quello che si pensava, le tecnologie che avrebbero dovuto liberarci ora ci rendono schiavi, le reti che avrebbero dovuto unirci ci dividono, e le tecnologie che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo ci lasciano invece senza neanche un po’ di tempo per noi stessi”. La critica offerta da Taylor di questa società odierna che procede solo di corsa, i cui ritmi si fanno sempre più frenetici (tratta dal suo libro fresco di pubblicazione Speed Limits: Where Time Went and Why We Have So Little Left), riguarda naturalmente l’avvento di Internet, e come esso abbia rivoluzionato completamente la vita quotidiana, incluso il mondo della cultura. “Anziché espandere gli universi del discorso, le tecnologie di networking hanno, in molti casi, ristretto i confini della conversazione – scrive Taylor – […] Quando la velocità è essenziale, la brevità diventa la soluzione preferita: la complessità lascia il posto alla semplicità e la profondità di significato si disperde attraverso superfici su cui occhi volubili si posano in maniera intermittente”. In questa realtà fatta di email frammentarie, tweet in 140 caratteri e blog pieni di errori, “l’oscurità, l’ambiguità e l’incertezza, che sono la linfa vitale dell’arte, della letteratura e della filosofia, si trasformano in problemi di decodificazione da risolvere nella maniera riduttiva dell’e/o della logica digitale”.    

Esiste, però, almeno negli Stati Uniti, anche un altro modo, più ottimista, di vedere le cose, secondo cui il problema non sono i nuovi strumenti di questa era iper-connessa, ma l’interpretazione che diamo di essi e, di conseguenza, l’uso che ne facciamo. Per esplorare la possibilità di un diverso approccio culturale e artistico allo stesso materiale, fatto di Facebook e video di gatti su Youtube, Kenneth Goldsmith, poeta e professore di scrittura creativa alla University of Pennsylvania a Philadelphia, ha cominciato quest’anno a insegnare un nuovo corso intitolato un po’ provocatoriamente Wasting Time on the Internet (perdere tempo su Internet). “L’ispirazione è venuta dalla mia frustrazione con tutti gli articoli che ho letto sul fatto che Internet ci rende più stupidi – dice Goldsmith – Non penso sia vero. Leggiamo e scriviamo più che mai nella storia, condividiamo idee e conoscenze in maniere difficili da misurare. Solo che non ci hanno mai insegnato a dare il giusto valore a questo modo di leggere, scrivere, condividere e apprendere”.

Il corso di Goldsmith si compone di tre ore di “lezione” durante le quali gli studenti rimangono seduti ai propri banchi e si connettono a quanti più dispositivi digitali possibili, dai portatili ai tablet agli smartphone, su cui devono navigare il web. Il prodotto di questo navigare andrà a costituire la materia prima di lavori creativi, ad esempio romanzi composti attraverso i propri tweet, autobiografie basate sulla propria cronologia di navigazione e soap opera fatte dei propri profili su Facebook. “Voglio che gli studenti operino in uno stato di distrazione – spiega Goldsmith – Un po’ come predicavano i surrealisti, al varco tra l’essere svegli e addormentati. In questo caso si parla di un crepuscolo elettronico, il nuovo inconscio”. 

A 54 anni, Goldsmith ha già una carriera importante alle spalle, ricca di impulsi innovativi e riconoscimenti prestigiosi. Tra le altre cose, è autore di dieci collezioni di poesia e fondatore di UbuWeb, un archivio online per materiale avant-garde di ogni genere. Nel 2011 è stato invitato da Barack e Michelle Obama a leggere la propria opera alla Casa Bianca. Nel 2013 è diventato il primo “poeta laureato” del Museum of Modern Art (MoMA) di New York. 

Soprattutto, Goldsmith non è nuovo alla sperimentazione, anche in fatto di didattica. Già da qualche anno, ad esempio, insegna un altro corso a UPenn intitolato Uncreative Writing, un concetto su cui ha pubblicato, nel 2011, un volume omonimo. In un estratto apparso, anche in questo caso, sul Chronicle of Higher Education nel settembre 2011, Goldsmith riflette su come il ruolo dell’artista/scrittore debba cambiare a fronte dei nuovi strumenti di cui si è dotata la società. “Con una quantità di testo a disposizione mai vista prima, il problema non è quello di scriverne altro in più; piuttosto, dobbiamo imparare a trattare l’incredibile massa che già esiste – commenta il poeta - Il modo in cui scelgo di farmi strada in questa boscaglia di informazione – come la gestisco, l’analizzo, la organizzo e la distribuisco – è ciò che distingue il mio scrivere dal tuo”.  Da questa considerazione venne a Goldsmith l’idea del corso di scrittura non-creativa. Nel medesimo articolo, il poeta ne descrive la struttura: “Gli studenti sono penalizzati se mostrano anche solo un briciolo di originalità e creatività. Invece sono premiati se plagiano, rubano identità, riutilizzano paper già scritti, fanno collage di opere già prodotte, attraverso la campionatura, il saccheggio, il furto”. 

Da qui a Wasting Time on the Internet il passo è breve. “Il web è fatto apposta per il copia-e-incolla, è un panorama molto ricco, e se costruiamo le nostre poesie partendo da quello che ci appare davanti agli occhi sui nostri schermi, non avremo mai più il blocco dello scrittore – dice Goldsmith – Internet è il più grande poema mai scritto, illeggibile soprattutto per via delle sue dimensioni. Facebook offre un’istantanea eccezionale di quello che vuol dire essere vivi oggi, una sorta di biografia collettiva. Tutto dipende da che punto di vista si adotta”. 

L’auspicio di Goldsmith per i suoi studenti, quindi, è che trovino su Internet nuovi potenti fonti di ispirazione. “L’obiettivo, se teorizziamo e diventiamo coscienti delle nostre abitudini online, è di ripensare la nostra esperienza sul web come impegnata, creativa e alienata, anziché continuare a vederla istintivamente come una perdita di tempo”. 

Internet rappresenta senz’altro una nuova frontiera per l’informazione, la cultura e l’arte. Anche Goldsmith, però, riconosce in fondo che per sfruttarne le potenzialità, per usarlo anziché esserne usati, bisogna avere il tempo e gli strumenti intellettuali per riflettere sui suoi meccanismi e significati profondi, opportunità data forse agli studenti di scrittura creativa di UPenn, una delle migliori università americane, ma a pochi altri al mondo. Per un numero assai maggiore di persone, le nuove tecnologie, elevando la velocità e la connettività a valori fini a se stessi, hanno significato fin qui un’accelerazione esponenziale dei ritmi di lavoro (per chi il lavoro ancora ce l’ha) e il bisogno ossessivo di riempire, con i dispositivi digitali, ogni minuto libero della giornata. E l’enorme flusso di informazioni cui abbiamo accesso non si è tradotto, per il momento, in un pubblico meglio informato e più attento, tutt’altro, come dimostrato da una valanga di studi sul livello di ignoranza diffuso anche nei paesi più ricchi e sviluppati. Come scrive Mark Taylor della Columbia University, questa spinta all’accelerazione continua “non è sostenibile” perché prima o poi “la velocità uccide.” I sistemi complessi come quello in cui viviamo oggi, “non sono infinitamente adattabili, e quando crollano, lo fanno improvvisamente e inaspettatamente”, conclude lo studioso. “Il tempo a nostra disposizione si sta rapidamente esaurendo”. 

Valentina Pasquali

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