SOCIETÀ

Malattie, farmaci e profitti

“La medicina, in questo secolo, ha fatto enormi progressi: pensate a quante malattie ha saputo inventare”. Questa “battuta” è attribuita a Enzo Jannacci, il  noto cantante che è stato anche medico. Ma possiamo considerarla solo una battuta di spirito? È mai possibile inventare delle malattie? Non dovrebbe forse essere la massima aspirazione quella di lasciare i medici “disoccupati” per assenza di malattie? Purtroppo la vita non è mai semplice e qualcuno sembra anche divertirsi a complicarla.

Nel 1977 in un'intervista alla rivista americana "Fortune" l'allora direttore generale della multinazionale farmaceutica Merck, Henry Gadsen, esprimeva un desiderio: "Il nostro sogno è inventare farmaci per gente sana" e il tempo trascorso da allora sembra aver più confermato che smentito quel  desiderio.  Si tratta però di un sogno ben poco salutare perché spinge alla “medicalizzazione della salute” secondo il motto: “il sano è un malato che non sa di esserlo”. 

Come disease mongering (D.M.) vengono definite tutte quelle strategie che puntano ad aumentare il numero di “malati” e di malattie con il solo scopo di allargare il mercato della salute. 

Se di questa pratica sono accusate principalmente le multinazionali del farmaco,  anche gli specialisti contribuiscono a rendere fertile il terreno per queste azioni, quando rivolgono improvvisamente la loro attenzione a particolari patologie, sottolineandone l’incidenza e le ricadute sociali sulla popolazione. A volte basta saper confezionare bene un comunicato stampa (il lettore può divertirsi  col generatore di comunicati).

Così l’arte di “inventare malattie” è diventato lo scopo del marketing di molte industrie del farmaco che – è bene tenerlo a mente – spendono in questo settore molto di più che per la ricerca e lo sviluppo.

Modificare i livelli di soglia delle patologie può essere una delle modalità per creare nuovi “ammalati”.  Ad esempio, accertata la relazione tra giro vita e infarto, riuscire ad abbassare la misura del giro vita anche di un solo centimetro. equivale a far aumentare di milioni le persone che possono essere trattate con farmaci, ovviamente sempre in nome della prevenzione. E per raggiungere questo scopo vengono anche finanziate ricerche ad hoc, esercitate azioni di lobbying sui redattori di linee guida,si influenzano le associazioni di pazienti aprendo così la strada infinita del conflitto d’interessi tra diritto alla salute e profitto economico.

Ma si potrebbero fare anche altri esempi. La soglia del colesterolo totale negli anni Ottanta era fissata a 280 mg/dl, ma è poi progressivamente scesa fino ai 200 mg/dl odierni. I trigliceridi passano da una soglia di 200 mg/dl del 2003 ai 150 di oggi. Simili riduzioni della soglia considerata critica valgono anche per la glicemia e l’ipertensione arteriosa. Un metodo che introduce il tema delle pre-malattie e tra i nuovi arrivi troviamo così la valutazione della "pre-ipertensione", del "pre-diabete" della "pre-osteoporosi". Non a caso Fiona Godlee, la direttrice del BMJ, nel 2010 scrive un editoriale dal titolo più che esplicito: "Siamo a rischio di essere a rischio?"

Già nel 2002 Richard Smith componeva una classificazione internazionale delle non-malattie comprendente ben più di 200 condizioni ritenute a torto come patologiche (tra queste: la calvizie, la cellulite, la nascita, la vecchiaia, la menopausa, la noia, la solitudine).

 Appare evidente che una ben studiata campagna di marketing, tendente a trasformare condizioni normali di vita in sintomi di disagio o disturbi veri e propri, crei poi un ambiente attrattivo per persone predisposte o poco accorte. I tanti settori che possono trarne vantaggio formano tutti insieme una grande armata di pressione: ricordate ad esempio la pubblicità dello yogurt che combatte il colesterolo e impedisce al cuore di fare il matto?.

Nel campo dei disturbi mentali e della difficoltà del vivere, non è sufficiente promuovere i farmaci, ma è necessario   soprattutto creare il bisogno, facendo leva sui sintomi per stimolare la domanda sul mercato (mai sentito parlare della “sindrome della gamba nervosa?”). A volte è sufficiente battezzare le cose con un nome diverso: se la timidezza cominciamo a chiamarla "disturbo d'ansia sociale", le porte si spalancano alla richiesta di ansiolitici.

L’agenzia indipendente Nielsen media research rilevava già nelle settimane immediatamente seguenti l’attentato alle Torri gemelle un incremento delle spese pubblicitarie delle industrie farmaceutiche per la promozione di antidepressivi. “Your worst fear” è il leitmotif delle campagne che in un solo mese, l’ottobre 2001, hanno visto colossi come Glaxosmithkline o Pfizer investire oltre 20 milioni di dollari (il lettore che volesse approfondire può leggere il libro di P. Pignarre: L’Industria della depressione).

Un esempio di fear advertising sugli esami per il colesterolo. La pubblicità rimandava al sito www.makingtheconnection.ca (ora chiuso) il cui dominio era di proprietà della Pfizer Canada 

E nel 2006 Kalman Applbaum denuncia su Plos Medicine una  mutazione culturale profonda: "Poiché crediamo di dovere a queste aziende la nostra salute e il nostro benessere, tendiamo a non  discutere le loro strategie fino a che queste divengono invisibili (…) In una società di consumatori nella quale percepiamo noi stessi come agenti liberi che esercitano una scelta, non è certo difficile per le aziende farmaceutiche convincerci che la conversione da pazienti a consumatori sia una evoluzione a nostro vantaggio".

In conclusione: attenzione alla pubblicità ingannevole (ammesso che ce ne sia di non ingannevole).

Luciano Rubini

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