CULTURA

Edgar Morin, ogni pensiero vive nel presente

Il quasi centenario Edgar Morin non ha resistito a scattarsi un selfie con i filosofi, ma non solo, frequentati nel corso della sua lunghissima vita di studioso e testimone del Novecento. Si tratta di un elenco ecumenico, da Eraclito a Rousseau, da Pascal a Marx, da Freud a Ivan Illich, inclusi Beethoven e Dostoevskij, ma anche scienziati come Bohr e von Neumann, i surrealisti e Heidegger. Certo si tratta di figure importanti (ci sono anche un paio di fondatori di religioni come Buddha e Gesù), ma quello che potrebbe interessarci è che I miei filosofi (ed. or. Mes philosophes, Paris 2011) traduce una caratteristica del pensatore Morin, e cioè che l’incontro con  filosofi, musicisti e scrittori  è sempre  innestato  in una esperienza  individuale, in una necessità prima di tutto esistenziale. Nulla di più vicino all’aforisma di Nietzsche, dunque: "Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo". Lo stesso Morin racconterà in un altro testo autobiografico – Mes démons del 1994 - che uno dei suoi saggi più noti e innovativi, L’homme et la mort, aveva come genesi pratica quella sorta di Hiroshima interiore che fu la morte della madre quando aveva nove anni e quella, in seguito, di alcuni amici durante la Resistenza in Francia. 

Morin riesce a passare dall’illuminismo al romanticismo, dal marxismo alla cibernetica a seconda del bisogno personale di comprendere, così come può partire dall’ebreo Proust e finire all’antisemita Céline, e può essere nel medesimo tempo marxista e gollista, iscritto al partito comunista francese negli anni Cinquanta ma anche autore di una delle più profonde critiche mai scritte sul carattere totalitario del comunismo sovietico (l’Autocritique è del 1959).

Nella biblioteca del pensatore della complessità ci stanno un po’ tutti e c’è posto per tutti. Alla fine della lettura di ogni capitolo de I miei filosofi Morin sembra di volta in volta completamente assorbito dal suo autore (diciannove capitoli per altrettanti nomi). Leggiamo le pagine su Eraclito e scopriamo un Morin eracliteo, leggiamo quelle su Pascal e troviamo un Morin pascalianoe così via. Ma, in definitiva, amare scrittori e pensatori a volte contrastanti non è forse il destino di ogni lettore che si abbandona alla vita e al fascino del suo ‘oggetto’? L’antidogmatico Morin vive di inclusività, cerca il bene dove può trovarlo, anche in autori apparentemente distanti ma ripensati attraverso le nozioni cardine della sua filosofia, la complessità e la contraddizione. Senza dimenticare che stiamo scrivendo di un intellettuale la cui caratteristica è l’erranza del pensiero, la curiosità infinita che lo fa assomigliare all’immenso Montaigne per il saggiare territori diversi, prenderne il meglio e tralasciare quello che non serve. 

La pluralità di ispirazioni del pensiero di Morin si spiega, innanzitutto, biograficamente. L’ebreo sefardita Morin, il post-marrano Morin, nato Edgar Nahoum nella greco-turca Salonicco e poi emigrato in Francia,  che non ha ricevuto nessuna verità o tradizione né intellettuale né nazionale, converte la sua  mancanza di radici e di eredità culturali univoche in una formazione continua, in una Bildung onnivora che si alimenta  proprio dell’assenza di una verità data o trasmessa.

 "Non ho ricevuto alcuna verità religiosa dalla mia famiglia, molto laicizzata. La sola religione per mio padre, che aveva cinque fratelli e sorelle, era quella della solidarietà familiare che è sparita con la mia generazione di figli unici. Di fatto, non ho potuto disporre di un sistema immunologico mentale che mi permettesse di rifiutare idee non conformi all’eredità culturale, perché questa non esisteva affatto. Ciò mi ha spinto a ricercare da solo le mie verità nelle fonti più diverse". 

Dopo I miei demoni, La mia sinistra, la mia Parigi e, infine, I miei filosofi, il sociologo francese si declina al possessivo e il suo passato, intellettuale e personale, diventa, in questi ultimi scritti, quasi un’antologia privata dove l’istanza personale - coltivare le  antitesi contro ogni unilateralità - diventa sigillo di un pensiero filosofico che si nutre di opposizioni e complessità. Complessità che, più che essere teoria scientifica, è una modalità, un metodo per indagare la realtà nella totalità delle sue relazioni; del resto aveva scritto già Aristotele che il tutto è maggiore delle parti. 

Gli spiriti del pensiero evocati da Morin sono una legione e questo ci pone il problema filosofico dell’influenza. È come se Morin in questo libretto volesse dirci che chi ha la pretesa di pensare da solo a solo è un impostore; l’unico modo di pensare è dialogico, e consiste nel sapersi rivolgere alla ricchezza della tradizione filosofica come a un presente. Morin riesce a farlo con un passo mimetico e plastico, quasi un’erotica dell’assimilazione in atto. Hegel, uno degli autori del sociologo francese, scriveva che di fronte a quella peculiare tradizione che è il pensiero filosofico noi ereditiamo e allo stesso tempo facciamo fruttare quell’eredità. 

C’è qualcosa di affascinante in Morin: dopo aver esaltato l’ordine, la ragione, passa ad esaltare il disordine e l’aleatorietà, dopo aver esaltato la razionalità conclude nell’approdo mistico, ma certo un misticismo razionale (alla Hegel, Spinoza, Eckart o Lao Tzu). La complessità, forse una reinterpretazione dell’assoluto hegeliano, nel pensiero di Morin accoglie il movimento e la stasi, il flusso e la quiete; l’anthropos porta con sé il bios, la  physis il  cosmos. Scienza del cosmo, scienza della vita e società umana si tengono assieme. Ed ecco allora la predilezione per quei pensatori dove gli opposti sono riconosciuti come necessari: Eraclito, Hegel, Pascal, il Tao, le scienze della complessità (la teoria dei sistemi, Prigogine, la cibernetica, la biologia). Mistero, ma un mistero alla luce della ratio, come testimonia anche la splendida citazione finale di San Juan de la Cruz. La conoscenza è progressiva e, quando arriva al limite, è indicibile. Scrive Morin: "Mi sono sentito incessantemente e intensamente partecipe alla vita, parte della vita, al tempo stesso in cui sentivo di far parte del cosmo e di partecipare alla sua avventura inaudita. Tutta questa avventura della conoscenza, ben lungi dal farmelo dissipare, mi ha permesso di riconoscere il profondo mistero che si cela nella condizione umana, nella vita, nell’universo, in tutto ciò che chiamiamo realtà".

Sebastiano Leotta

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