UNIVERSITÀ E SCUOLA

Otto in tenacia: quando a scuola si insegna anche il carattere

La forza d’animo può essere una materia scolastica? È possibile istruire e valutare bimbi e ragazzi sul rafforzamento di lati del carattere come l’autocontrollo, la determinazione, la capacità di superare le avversità? I genitori e gli educatori possono programmare percorsi formativi che portino gli allievi a maggiore curiosità, ottimismo, sicurezza in se stessi? La risposta che ci verrebbe d’istinto è che sviluppare questo tipo di qualità non è compito delle istituzioni, o perlomeno non lo è direttamente; che  scuole, programmi educativi e di sostegno didattico devono occuparsi di far apprendere ai piccoli i fondamenti della propria lingua, della matematica, delle materie base; e che, semmai, un miglioramento del carattere e della gestione dell’emotività possono essere una conseguenza positiva, ma incidentale, degli stimoli e dei vincoli connessi all’esperienza scolastica. Eppure c’è chi la pensa  diversamente. Nel Regno Unito, il gruppo interpartitico per la mobilità sociale, una commissione del Parlamento composta da rappresentanti di tutte le forze politiche, ha pubblicato una relazione volta a dimostrare che il “carattere” inteso nel senso più ampio è qualcosa che si può e si deve insegnare, e che ha un impatto decisivo sui risultati scolastici, sulla carriera lavorativa e, in generale, sul benessere delle persone. Il rapporto cita ricerche scientifiche ed esperienze didattiche che dimostrano come vi sia una precisa correlazione tra doti caratteriali, qualità dell’apprendimento, risultati sul lavoro e persino livelli di remunerazione (se n’è occupato il Nobel per l’economia James Heckman): in una parola, la mobilità sociale è influenzata da quanto il carattere sviluppato fin dall’infanzia predispone o meno a sfruttare al meglio le occasioni conoscitive e relazionali.

A riprova della propria posizione, la commissione cita diversi casi di esperimenti didattici di successo che si basano su presupposti simili. Con una precisazione: intervenire sul carattere è tanto più efficace quanto più precocemente si agisce e, nella primissima infanzia, le istituzioni possono sostenere i genitori guidandone e integrandone il ruolo. Interessante è il caso di Leksand (Svezia) in cui i genitori, riuniti in gruppo, sono assistiti da operatori che ne seguono la preparazione alla nascita dei figli, e la successiva relazione che si instaura con loro, fino al quinto anno di vita dei bambini: l’obiettivo è stabilire un programma comune per la trasmissione di valori e per la gestione del rapporto genitoriale. Accanto al supporto al fondamentale ruolo dei genitori, casi di più specifica sperimentazione didattica si ritrovano nella scuola dell’infanzia (destinatari sono bambini di 4-5 anni). Molto avanzato è il programma in corso in numerosi asili del Maryland (Usa): sono stati messi a punto strumenti di valutazione che giudicano quanto i bambini siano messi nelle condizioni di apprendere, accanto ad abilità linguistiche e logiche, la school readiness, definita come “la capacità per un bambino di prender parte e trarre profitto da esperienze formative precoci”. Si giudicano non solo i risultati nell’apprendimento, ma tutti gli sviluppi della personalità in termini di socializzazione, responsabilità, motivazione. Passando ai cicli della scuola primaria e secondaria, il modello da seguire è quello di Singapore, dove da quest’anno è stato introdotto uno specifico programma per il miglioramento delle doti di determinazione e capacità di superare gli ostacoli. Analogo intento è quello del Kipp, network di charter schools americane (enti di istruzione no profit finanziati da Stato e privati) che basa il suo approccio pedagogico su sette concetti chiave: entusiasmo, autocontrollo, gratitudine, curiosità, ottimismo, determinazione e sensibilità sociale. Così, ad esempio, l’ “entusiasmo” è valutato a seconda di quanto attiva e appassionata è la partecipazione alle attività comuni; mentre l’ “ottimismo” è correlato alla capacità di non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà o la coscienza dell’utilità futura del proprio impegno. Se gli interventi su soggetti in età scolare sono fondamentali, utilissimi sono anche i programmi previsti da alcuni grandi gruppi aziendali più sensibili agli aspetti caratteriali dei dipendenti o dei candidati da selezionare. La britannica National Grid prevede per il proprio personale esperienze regolari di volontariato, precedute da formazione ad hoc, e stabilisce un favore nelle assunzioni per chi dimostri particolari doti di socialità e spirito di collaborazione maturati in attività no profit; BT (l’ex British Telecom) organizza corsi per dirigenti e impiegati finalizzati a sviluppare ottimismo e resistenza agli eventi avversi; Pricewaterhouse Coopers, infine, propone percorsi di formazione rivolti a diplomati che, pur non avendo un curriculum in linea con i tipici profili richiesti, dimostrano particolari attitudini caratteriali che li rendono interessanti candidati all’assunzione. Il rapporto della commissione londinese delinea una prospettiva che, per la gran parte degli ordinamenti scolastici, è ancora troppo lontana dai modelli tradizionali dominanti. Se è vero che gli esperimenti citati sono pionieristici, è innegabile però che il dibattito su metodi e finalità nella formazione dell’infanzia e dell’adolescenza dovrà, prima o poi, affrontare un tabù, spinoso soprattutto nelle società dal familismo più spiccato: delegare alle istituzioni non solo l’apprendimento della geometria o della chimica, ma di una parte decisiva dell’educazione dei figli.

Martino Periti

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012