SCIENZA E RICERCA

Progresso: un groviglio di spaghetti

Alcuni anni fa, nel 2005, Bobby Henderson, uno spiritoso neolaureato in fisica americano, inventò un movimento scientifico-religioso, il pastafarianesimo, basato sull'idea che all'origine della vita ci fosse un gigantesco agglomerato semovente di spaghetti (il flying spaghetti monster). Si trattava, naturalmente, di una satira, che aveva come obiettivo una normativa allora appena adottata in Kansas, in base alla quale le scuole dello stato avrebbero dovuto affiancare alle lezioni sull'evoluzionismo anche dei corsi ispirati alla “teoria” creazionista. Se a Darwin e alla Bibbia viene attribuita la stessa valenza scientifica, scrisse in una lettera aperta il giovane, allora esigo che anche la Chiesa pastafariana possa dire la sua.

Una provocazione, certo (che – per la cronaca – ha forse sortito qualche effetto, visto che nel 2007 il Kansas State Board of Education è tornato sui suoi passi e ha abolito l'emendamento sull'intelligent design). Eppure, a sorpresa, alcune ricerche sull'evoluzione della specie umana e in particolare dei suoi progressi tecnologici rivelano che, in fin dei conti, il modello “groviglio di spaghetti” non è poi così campato per aria. Prendendo a prestito un termine che viene utilizzato per delle sinuose improvvisazioni musicali, il biologo Peter Richerson, professore emerito di scienze ambientali alla University of California, Davis, ha descritto infatti la nostra evoluzione tecnologica come noodling about, più o meno “fettuccine in libertà”.

Addio all'idea di un cammino lineare, che ci ha portati dalle caverne ai grattacieli e che in futuro ci condurrà a piantare sofisticatissime tende in altri pianeti. “Di solito si pensa all'evoluzione tecnologica come a una curva esponenziale che comincia più o meno piatta all'inizio dell'Età della Pietra e accelera man mano che ci avviciniamo al presente, ma l'idea che la nostra inventiva aumenti sempre di più potrebbe essere illusoria”, ha scritto Laura Spinney sul “New Scientist”, in un articolo che riassume le ultime ricerche in questo campo. “Osservata alla lente di ingrandimento, questa curva all'apparenza regolare si spezza in una frenetica serie di progressi, passi indietro, scatti in avanti”.

Secondo l'antropologo Luke Premo, della Washington State University, nel corso della storia umana avremmo “perso per strada” una quantità di invenzioni almeno pari a quella che è in nostro possesso. Nella sua panoramica Spinney cita il caso della meravigliosa flotta dell'ammiraglio Zheng He, che nella Cina del Quattrocento, dopo avere compiuto sette spedizioni oceaniche, fu smantellata e portò con sé nel nulla il know how che l'aveva resa possibile. Ma gli esempi di questi andirivieni tecnologici, anche qui in Italia, sono sotto i nostri occhi, a partire dagli splendidi acquedotti romani, le cui tecniche costruttive andarono perdute con il crollo dell'impero e vennero faticosamente rielaborate molti secoli dopo. Sulla base degli studi più recenti, però, è soprattutto dall'Età della Pietra che avremmo le maggiori sorprese in fatto di tecnologie smarrite. La apparente mancanza di innovazioni di quel lungo arco di tempo, sostiene Luke Premo, non sarebbe legata a fattori cognitivi, ma alla scarsa densità di popolazione: l'estinzione – assai frequente – di un piccolo gruppo di cacciatori-raccoglitori comportava automaticamente la perdita di tutte le innovazioni acquisite dal gruppo. E una conferma indiretta viene dalla Tasmania, dove una gamma di tecnologie complesse (abbigliamento contro il freddo, strumenti per la pesca, armi) andò smarrita circa dodicimila anni fa, quando in seguito a motivi climatici la regione si trasformò in un'isola, staccandosi dal continente australiano. 

Vero motore di tutte le innovazioni, la circolazione dei dati, protagonista – grazie alla scrittura e adesso alla rete – della nostra stagione storica, potrebbe però trasformarsi in un inatteso intralcio. Spinney cita infatti Alex Mesoudi, antropologo dell'università di Durham, nel Regno Unito, secondo il quale “abbiamo accumulato una tale quantità di sapere, che i giovani, dovendo acquisire il bagaglio ereditato dalle generazioni precedenti, adesso hanno meno tempo per innovare” (e il fatto che l'età media delle scoperte che portano al Nobel sia passata nell'ultimo secolo da 32 a 38 anni ne sarebbe una prova). Non solo: la crescente complessità delle tecnologie fa sì che si perda la conoscenza del contesto ma, ammonisce un altro antropologo, Robert Boyd, dell'università dell'Arizona, “comprendere le cause di un fenomeno, sapere come funziona una certa tecnologia, è importantissimo perché ci aiuta a adattarci meglio se interviene un cambiamento ambientale”.

Tutti rischi di cui dovremmo tenere conto, conclude Laura Spinney, se non vogliamo fare la fine della splendida flotta di Zheng He (restando, aggiungiamo noi, miseramente intrappolati in un groviglio di spaghetti).

Maria Teresa Carbone

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