SCIENZA E RICERCA

Quando il professore diventa imprenditore

Uno dei leitmotiv sull’università italiana è che non vengano investiti sufficienti fondi sulla ricerca e che, anche qualora i gruppi di ricerca raggiungano risultati brillanti, non vengano loro riconosciuti i giusti meriti (per non parlare di compensi), tant’è che si è legittimata l’idea di una “fuga dei cervelli” all’estero.

Una prospettiva diversa potrebbe venire dai cosiddetti spin-off, ossia quelle società di capitali che nascono per dare uno sviluppo produttivo a idee e progetti nati dalla ricerca scientifica e tecnologica universitaria. Imprese in cui i ricercatori possono trovare un impiego lavorativo e una motivazione economica senza abbandonare il campo della sperimentazione e dello studio, ma anzi facendo della ricerca e dello sviluppo del progetto iniziale il punto di forza per il successo della nuova azienda. Altrove è una via consueta: negli Stati uniti il Mit (Massachusetts institute of technology) solo tra il 1980 e il 1996 ne aveva già fondate ben 134 di cui 24 quotate in borsa. l’Italia, invece, anche in questo campo arriva con almeno una quindicina d’anni di ritardo.

Non si tratta di progetti e investimenti con un ritorno soltanto nel lungo periodo. I risultati non necessariamente si fanno attendere, anche se in Italia, in assenza di un “ecosistema” che favorisca la nascita e la prosperità delle neonate imprese, spesso dipendono di più dall’imprenditorialità del singolo. È questa l’esperienza di Ruggero Frezza, docente dal 1990 al 2006 presso il dipartimento di elettronica e informatica dell’Università di Padova, fondatore nel 2000 di Emotion s.r.l., spin-off che sviluppa e commercializza sistemi ottici per l'analisi del movimento. Da lì è nata poi m31, una società“incubatrice d’impresa” che sta avendo successo non solo in Italia, ma anche oltreoceano, a Santa Clara. Nella Silicon Valley, quella zona della California divenuta, sin dagli anni Quaranta, luogo privilegiato per l’incontro di ricerca e impresa in campo informatico.

Lì si realizza infatti quella collaborazione reciproca tra i diversi soggetti interessati allo sviluppo degli spin-off e del loro indotto, la sinergia fra i centri di ricerca e le università, le imprese, le istituzioni – a livello centrale e locale – e, non ultimi, gli istituiti di credito. Un modello di cooperazione virtuosa che secondo Emiliano Fabris, executive manager di Startcube, l’incubatore d’impresa dell’università di Padova, in Italia fatica a mettere radici. Nonostante nel 2012 il decreto Sviluppo abbia, infatti, introdotto il nuovo istituto giuridico della “start-up innovativa” con l’intento di appoggiare le nascenti imprese d’eccellenza, di fatto le procedure burocratiche, spiega Fabris, sono ancora poco snelle e gli sgravi fiscali ridotti.

In questo senso assume un ruolo chiave, ancora secondo Frezza, il “business angel”: il manager, l’imprenditore che vede nel progetto di ricerca la sua realizzabilità sul mercato e la persegue. Il fatto che lo spin-off, e poi l’impresa vera e propria, nascano dalla ricerca, in un contesto universitario, non è sufficiente ad assicurarne il successo. L’elevato livello tecnologico e il legame con l’università rappresentano infatti solo una delle condizioni necessarie, quella delle competenze tecniche. Il ricercatore non necessariamente ha doti da imprenditore, e pur essendo in genere il leader del progetto, ha spesso bisogno di essere affiancato da una figura capace di trasformare la possibilità che emerge dalla ricerca in un prodotto assorbibile dal mercato. Quello che Mike Wright, uno dei massimi esperti in materia di imprenditorialità accademica, docente dell’Imperial College di Londra, chiama “imprenditore surrogato”. La marcia in più che lo spin-off ha rispetto a un’impresa tradizionale che ha comprato un brevetto vincente, magari proprio da un’università, è proprio il diretto coinvolgimento del ricercatore nel progetto, perché garantisce la continuità e lo sviluppo ulteriore dell’idea iniziale sotto il profilo della ricerca.

Sono proprio i casi che vedono “l’inventore” in prima linea, e in cui la nascente impresa si spende nel progetto al massimo, sia in termini di risorse che di attività quelli con la massima probabilità di riuscita, pur essendo le tipologie più rare. È per loro che vale, propriamente, la definizione di incubator, nei termini di Wright. Per la legge dei grandi numeri però, la maggior parte degli spin-off decollati si colloca tra quelli che lo studioso definisce “low selective”. Progetti imprenditoriali nati per la valorizzazione di una ricerca ma a bassa intensità di capitali e di attività investite; più facili da creare e da gestire perché richiedono meno tempo, risorse e specializzazione, ma che chiaramente offrono un prodotto che ha meno probabilità di trasformarsi in un successo sul mercato, pur riuscendo a sopravvivere.

Se quindi l’idea e la competenza scientifica costituiscono il cuore di questi progetti, la nascita di uno spin-off è frutto di un processo di formazione delicato e costellato da “giunture critiche” tra le diverse fasi gestazionali, che possono decretarne la riuscita o il fallimento. È necessario che si possa vedere nel progetto di ricerca la risposta a una domanda del mercato, e che questa venga indagata nella sua effettiva possibilità di trasformazione; in caso affermativo, l’imprenditore deve metterci del suo e ampliare il suo portfolio di attività e competenze per dare forma concreta al progetto. Segue una fase organizzativa in cui si comincia a dare indirizzi certi alla start-up (sede, dimensioni, fascia di mercato e aspetti amministrativi) alla fine della quale è necessario che l’attività nascente superi quella che Wright definisce “credibility threshold”: l’attività deve cioè cominciare a fare affari. Solo così sarà possibile, nella fase successiva di orientamento e riorganizzazione iterativa, correggere il tiro, affinare processi, idee e competenze e proseguire nella crescita.

Ma se l’Italia è soggetta a eccessive complicazioni burocratiche, la collaborazione tra impresa, università e istituzioni non è ancora rodata e le banche non sono propense a finanziare, come fare a superare le soglie critiche e a far nascere nuove attività produttive? Per Frezza, occorre scegliere le persone giuste, motivate e competenti, andando a prenderle, se serve, anche “lontano”: uscire dalla logica localistica imperante nell’università italiana, e poi credere nel risultato e tener duro quando i ritorni non arrivano subito, confidando nel lavoro fatto. Perché in questo caso il ritorno ci sarà, mentre se la fiducia viene meno, anche il miglior progetto può fallire.

Valentina Berengo

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