UNIVERSITÀ E SCUOLA

Reclutamento ricercatori: pronti, attenti, stop?

Lo scenario della crisi economica e il contesto di tagli e vincoli alla spesa delle università disegnano, con una certa (amara) chiarezza, le prospettive di assunzione per i nuovi ricercatori. A Padova i numeri parlano di una forbice tra i 20 e i 40 ricercatori di tipo a (il contratto a termine che non dà sicurezza di prosecuzione del rapporto) in un triennio. Cifre “che potrebbero salire a 45-65, in tutto l’ateneo, considerando finanziamenti esterni e fondi residui”. Sono queste le previsioni che Cesare Voci, delegato per la didattica e il budget docenza dell’università di Padova consegna al pubblico di un recente incontro sul reclutamento dei docenti universitari. “Numeri che non possono bastare, se paragonati alle dimensioni del sistema universitario padovano. Si pensi che ogni anno ci sono 400 nuovi dottori di ricerca e 200 assegnisti”, continua Voci. Una situazione ben diversa dal recente passato, con le circa 80 assunzioni annuali e la priorità data ai ricercatori, nel periodo che va dal 2006 al 2012. Quello che oggi non è più possibile è “una decisione locale sul limite di spesa, assunta in autonomia. E con responsabilità”, rivendica il delegato del rettore. Il paradosso è che gli atenei sono chiamati a una programmazione triennale ma, anche quando considerati virtuosi e in possesso di un budget in grado di sostenere nuove assunzioni, le risorse che si è autorizzati a spendere si rivelano troppo scarse e vanificano ogni tentativo di pianificazione. Con i numeri di oggi, “si può pensare di fare una politica diversa da ‘uno per Dipartimento e qualcos’altro per i più meritevoli’?”, si chiede Voci. La causa di questo livellamento verso il basso delle politiche delle assunzioni è individuata principalmente nelle misure di limitazione al turnover degli atenei. Introdotte nel 2008 dal ministro Tremonti sono state accompagnate da una riduzione dei fondi alle università di 455 milioni di euro in 5 anni. Le regole sono state poi emendate più e più volte, ritoccate in un continuo gioco al ribasso, senza garantire alcuna stabilità al sistema: prima modificando le norme sul reclutamento dei docenti (ad opera della Gelmini), poi introducendo nuovi e ancor più stringenti vincoli di bilancio per gli atenei. Come nel caso del ministro Profumo, che ha inoltre spostato sul piano nazionale i limiti di assunzione. E lungo la stessa rotta si è mosso anche il governo Letta, posticipando al 2018 il momento in cui sarà possibile tornare al rapporto 1:1 tra chi va in pensione e chi viene assunto.Insomma, la navigazione a vista dell’università continua. Il diario di bordo registra la drastica riduzione degli ordinari (solo a Padova passati da 760 a 516 negli ultimi sette anni) e le ridotte prospettive di nuove assunzioni (sempre a Padova se ne prevedono una trentina nel triennio) per i ricercatori di tipo b. Quelli che all’inglese sono chiamati tenure-track e per i quali gli atenei stanziano già i fondi per il passaggio ad associati, qualora ottengano un’abilitazione nazionale durante il loro contratto.

Proiezioni per la docenza 2014-2018. Elaborazione: Paolo Rossi

Diverso è il caso dei ricercatori già in servizio. Molti di loro affidano agli esiti delle abilitazioni nazionali – attesi da più di un anno – le loro aspettative di avanzamento di carriera e proprio questo legittima la previsione di una prossima esplosione del numero degli associati. Infatti per chi, già idoneo in sede locale, conseguirà l’abilitazione scientifica nazionale esiste un piano straordinario che, solo a Padova, conta 300 posti in due anni.Altre idee si fanno invece strada per assegnisti e precari della ricerca. È il caso, ad esempio, delle 18 proposte per una nuova università formulate dalla Conferenza dei rettori: un “piano quinquennale per i giovani ricercatori che preveda l’ingresso di 2.000 persone ogni anno”. Il Piano giovani talenti, cofinanziato dalle stesse università e da fondi esterni, darebbe un posto di ricercatore a tempo determinato ai migliori dottori di ricerca stabiliti da un concorso nazionale.  “Basterebbe togliere dai piani del turnover – dove non figurano neppure le migliaia di assegnisti che già lavorano nelle università italiane – anche i ricercatori a tempo determinato. Per dare un’idea solo a Padova si aprirebbe la possibilità di contratti a termine per 50 ricercatori ogni anno”, sintetizzava Voci qualche giorno prima del lancio del piano Crui. Poi alla conclusione del contratto resterebbero due possibilità: la prospettiva di un passaggio tra i ricercatori tenure-track o l’impiego in altri settori lavorativi.

Tra il 2016 e il 2018, spiega il fisico Paolo Rossi, si prevedono in Italia 6.000 pensionamenti. “Le proiezioni nazionali parlano di un possibile cambio di ruolo per 6.500 ricercatori, promossi ad associati,mentre 1.800 associati dovrebbero diventare ordinari. Tutti passaggi interni al sistema, visto che i nuovi ingressi di ricercatori con tenure-track sarebbero solo 1.800”. Tradotto: l’intero sistema universitario si troverebbe con un saldo negativo di 4.200 persone. Un peccato, a giudicare dal successo di molti ricercatori italiani. Su 312 finanziamenti dell’European Research Council ben 46 vanno a italiani, un gradino sotto i tedeschi che guidano la classifica con 48. Cifre che hanno il sapore di un’occasione perduta, se si pensa che la maggior parte di questi lavora per un’istituzione estera. Con la spesa in ricerca e sviluppo ferma all’1,3% del Pil in Italia, meno della metà della Germania, dal Consiglio dei ministri arriva intanto il segnale di una possibile inversione di tendenza: il Piano nazionale della ricerca 2014-2020 annuncia infatti 6,3 miliardi di euro di finanziamento spalmati su sette anni. Che sia la volta buona? Carlo Calore

Consolidator Grant 2013: ricercatori finanziati per nazionalità e luogo di lavoro. Fonte: European Research Council

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