CULTURA

Srebrenica, la strada del ritorno

Recuperare la memoria e la propria identità dopo essere scappati, ancora bambini, da una guerra feroce. Vivere, crescere, studiare lontani dalla propria terra, ma sognare di ripercorrere, un giorno, la strada verso casa. Osmače e Brežani sono due villaggi del Podrinje, regione della Bosnia orientale, sull’altopiano sopra Srebrenica: nel 1991, Osmače contava 942 abitanti bosgnacchi (bosniaci musulmani), Brežani era popolato da 273 serbi. Dal 1993 al 2002 in quei villaggi non vi ha abitato più nessuno, la guerra ha cancellato la vita delle comunità e le tracce della compresenza plurietnica, della convivenza multiculturale. 

Nel 2005, un gruppo di uomini e donne, poco più che trentenni, ha scelto di rimettersi in viaggio, per tornare a casa. Vent’anni fa erano i bambini in fuga dalla guerra che ha devastato l’ex Jugoslavia, oggi, con le loro famiglie, stanno provando a riprogettare il proprio futuro. Giovani di diversa etnia-nazionalità e differenti tradizioni religiose hanno preso la strada del ritorno, fermandosi dapprima a Srebrenica e spostandosi, poi, verso i villaggi abbandonati per iniziare a ripopolare i borghi fantasma, curare e rianimare la terra dei padri, coltivando piccoli frutti (il progetto Lamponi di pace della cooperativa Insieme, partito da Bratunac e Srebrenica, è stato cofinanziato dal ministero degli Affari esteri e commercializza succhi e confetture sia localmente che a livello internazionale) e, dal 2010, anche il grano saraceno in circa 13 ettari di terreno. Tra loro ci sono anche Muhamed Avdić e Velibor Rankić, vincitori del Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino 2014. “A Brežani abbiamo iniziato coltivando lamponi – spiega Velibor Rankić – Ma dall’anno scorso io ho iniziato a seguire Muhamed anche nel progetto di coltivazione del grano saraceno”, pianta a fiore della famiglia delle polygonaceae che predilige le zone montane e ha il vantaggio di essere poco appetita dagli animali selvatici. 

La moschea del villaggio di Osmače, il memoriale, uno dei piccoli cimiteri; pecore al pascolo e campi coltivati. Fotografia di Zijah Gafić per FBSR, marzo 2014

A sostenere il piano Seminando il ritorno anche associazioni italiane presenti nell’area, molte venete: Agronomi e forestali senza frontiere (asf), Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs) e cooperativa agricolaEl Tamiso di Padova, Buongiorno Bosnia–dobardan Venecija e il Centro pace del comune di Venezia, con il sostegno della Tavola Valdese. Realtà impegnate in un progetto di supporto tecnico per il riavvio dell’attività agricola, insieme alla Fondazione Alexander Langer Stiftung di Bolzano e Adopt Srebrenica (quest’ultima nata nel 2005 per “favorire l'elaborazione del passato, nell'ottica di migliorare il presente e aprire nuove possibilità per il futuro”). Il ritorno inizia dalla ricostruzione delle case e della scuola che, prima dei bombardamenti, accoglieva oltre cinquecento alunni e ora, invece, ne ospita nove, di cui una sola bambina, Amina, che fa la quarta elementare. Ma il lavoro di recupero dei luoghi inizia, anche e soprattutto, dalla cura della terra, che deve essere liberata dalle infestanti felci aquiline e deve essere rigenerata. Per ripristinare le basi economiche e garantire una vita dignitosa alla popolazione residente.

Si può progettare, dunque, il rientro in luoghi ancora segnati dal trauma della guerra e dalle ferite del genocidio di Srebrenica? Sono passati quasi vent’anni dal massacro dell’11 luglio 1995, ma, anche a distanza di tempo, è davvero possibile ragionare su un futuro di rinnovata convivenza e colmare il vuoto di una così lunga assenza?  “La verità è che a vincere è il bisogno di radici, identità e memoria”, spiega l’architetto Domenico Luciani, presidente del premio istituito dalla trevigiana Fondazione Benetton studi e ricerche che, per questa XXV edizione, ha segnalato proprio Osmače e Brežani. “Dopo vent’anni e tante peregrinazioni, quei bambini fuggiti dalla guerra sono tornati, hanno ripreso la strada dei monti sopra Srebrenica. Sono ragazzi preparati e competenti, che hanno studiato all’estero. Ognuno con la propria lingua e la propria storia. In questa complessità di microcosmi trovano spazio obiettivi comuni: il bisogno di radici, l’orgoglio della riscossa, la tensione incoercibile verso la ricostruzione di un rapporto con la memoria e la natura. Partendo, appunto, da quei villaggi, che attualmente ospitano dodici famiglie”. 

Nel 1994, con il suo Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, Alexander Langer aveva posto le basi per intraprendere quella che sarebbe diventata “la strada del ritorno”, proprio partendo da una riflessione comune e una ritrovata collaborazione tra gruppi misti inter-etnici, “le piante pioniere della cultura della convivenza”.

Francesca Boccaletto

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