UNIVERSITÀ E SCUOLA

Test di ammissione: e se ce ne volessero di più?

La creatività degli studenti, per fortuna, non si smentisce: per contestare i test a Medicina, nei giorni scorsi la Rete della conoscenza ha organizzato manifestazioni in varie città con slogan non banali: “Fermiamo il contagio. No al numero chiuso” mentre su Twitter dilaga l’hashtag #meritodiscegliere. Per capacità comunicative, gli organizzatori meriterebbero senz’altro di essere promossi con lode.

Peccato che, nel merito della questione, abbiano per il 90% torto. Un po’ di storia delle professioni è utile per inquadrare la questione: i medici, come gli avvocati e gli architetti, appartenevano alle cosiddette “professioni liberali”, cioè quelle che venivano esercitate da pochi specialisti, sotto il controllo dei loro colleghi. Questo è il motivo per cui esistono gli Ordini professionali che gestiscono l’abilitazione alla professione: non basta laurearsi in Architettura, per esercitare occorre anche superare il cosiddetto esame di Stato.

Al contrario di Giurisprudenza, dove il numero chiuso non esiste, a medicina invece esiste, per quale motivo? È abbastanza ovvio: un Paese di 60 milioni di abitanti ha bisogno di X medici perché all’incirca si sa qual è il rapporto tra fabbisogno di cure e strutture sanitarie e l’Italia ha già un rapporto medici/cittadini  che nel 2002 superava la soglia di 6 medici per 1000 abitanti, mentre la media dell’Unione Europea era di 3,2: praticamente ne avevamo il doppio degli altri paesi sviluppati. Luigi Conte, segretario della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, nel settembre 2013 ha affermato: "Siamo il primo Paese al mondo per numero di medici".

Anche immaginando che l’Italia voglia, come scelta politica, assicurare un servizio sanitario più assiduo e disponibile nei confronti dei cittadini, è dubbio che questo dipenda solo dal numero di medici: dipende soprattutto dalla quantità e distribuzione territoriale di ospedali e ambulatori, dall’efficacia dell’opera di prevenzione, dal controllo dello stile di vita e da altri fattori ancora. Senza contare che il numero di medici in assoluto non significa nulla: potrebbero mancare i ginecologi perché la specializzazione più gettonata è cardiologia, o viceversa, e questo darebbe comunque un sistema sanitario distorto e inefficiente.

Il numero chiuso è quindi, innanzitutto, una tutela dei più deboli, di coloro che dopo la meritata festa di laurea si ritroverebbero senza un posto nel servizio sanitario nazionale e con scarse prospettive di esercitare dignitosamente la libera professione. Gli slogan contro l’esistenza di “soli” 19.000 posti per 83.000 candidati sono quindi assurdi: che farebbero i circa 60.000 laureati in Medicina che il sistema non è in grado di assorbire?

Un esempio di quel che succede quando si crede allo slogan #meritodiscegliere viene dalle professioni legali: scuole e dipartimenti di Giurisprudenza non hanno forme di selezione all’ingresso. Risultato: abbiamo 213.267 iscritti che, in prospettiva, vogliono aggiungersi ai circa 250.000 avvocati che l’Italia ha già, contro i 175.000 della Gran Bretagna, i 155.679 della Germania e i 125.208 della Spagna. La Francia, pur avendo circa lo stesso numero di abitanti dell’Italia, ha un numero molto più basso di avvocati: circa 55.000. La giustizia da noi funziona meglio che a Parigi? E’ vero piuttosto il contrario. Il sovraffollamento provoca un abbassamento della qualità e una compressione verso il basso dei redditi: i giovani avvocati, in particolare, sopravvivono a stento, quando non sono costretti a cambiare mestiere.

La selezione all’ingresso, quindi, ci vuole e non è affatto antidemocratica: come non tutti i 60 milioni di italiani hanno “diritto” a entrare nello stesso momento agli Uffizi, a Pompei, o in piazza San Marco a Venezia, così i test in alcuni settori sono un mezzo ragionevole per fluidificare e orientare, per evitare troppo vistosi “disallineamenti” fra università e mercato del lavoro.

Che siano un mezzo ragionevole, naturalmente, non significa che siano un mezzo ottimale, al contrario e, come si diceva, per il 10% chi protesta ha ragione. Come giornale, abbiamo evidenziato in questi giorni il fatto che negli Stati Uniti c’è un inizio di ripensamento sulla utilità ed equità dei test, ai vari livelli scolastici. Non si può essere che d’accordo con il rettore di Bologna Ivano Dionigi, che l’altro ieri ha dichiarato: "Il test non basta. Credo che un colloquio sarebbe importante, ma per 10.000 ragazzi vorrebbe dire strutture, personale, laboratori, risorse, investimenti che non ci sono. Quello del test è un ripiego frettoloso da scuola-guida che serve a lavarsi la coscienza e a risparmiare. Laddove la scuola fosse la priorità allora ci sarebbero un colloquio, una prova scritta, il test, si terrebbe conto del curriculum dello studente". 

In quest’ottica, le obiezioni ai test sono ragionevoli e giustificate. Poi c’è anche la questione dei contenuti delle prove, e in particolare delle domande di cultura generale. Su questo torneremo (1-segue).

Fabrizio Tonello

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