CULTURA

In un gioco di specchi. Mc Ewan si racconta

Pochi ricordano che all'inizio degli anni Ottanta i due libri d'esordio di Ian McEwan – la raccolta di racconti Primo amore, ultimi riti e il romanzo Il giardino di cemento, tradotti da Stefania Bertola per Einaudi rispettivamente nel 1979 e nel 1980, a non molta distanza dalla loro uscita in originale – finirono nel purgatorio dei remainder. Ma ne uscirono presto perché, nel giro di una decina d'anni, con Bambini nel tempo, Lettera a Berlino e Cani neri,  McEwan si sarebbe affermato come uno dei maggiori autori contemporanei di lingua inglese. E in seguito il suo successo di pubblico, sottolineato da fortunate trasposizioni cinematografiche (L'amore fatale, Espiazione), è diventato così vasto e indiscusso da insospettire alcuni critici, che hanno accolto con una certa freddezza i romanzi degli ultimi anni, Chesil Beach (2007) o Solar (2010), quasi che McEwan avesse tradito le sue iniziali aspettative e si fosse consegnato mani e piedi a una gradevole, ma sostanzialmente insulsa, narrativa commerciale, buona tutt'al più per il pubblico “midcult” che affolla i festival letterari.

Evidentemente, però, lo scrittore non ha dimenticato quella fase di esordio, quando la sua voce narrativa, per quanto originale e penetrante, non era ancora perfettamente collaudata e la fama appariva un obiettivo sfuggente. E sarà quindi per rispondere alle recensioni malevole o sarà per il desiderio, a sessant'anni passati da un po', di scrivere qualcosa di simile a un'autobiografia, sia pure camuffata da romanzo (come ha rivelato l'anno scorso in una intervista allo "Scotsman"), sta di fatto che con il suo ultimo Miele (in originale Sweet Tooth, Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 353, euro 20) McEwan ha regalato agli affezionati lettori un autoritratto dello scrittore da cucciolo,  che sembra – e anzi è, a tutti gli effetti – una spy story anni Settanta, ma che al tempo stesso, ha notato Adam Mars-Jones sulla “London Review of Books”, è “forse il più letterario di tutti i suoi romanzi”,  un gioco di specchi e di voci narrative dove il plot di spionaggio si rivela ben presto meno coinvolgente rispetto ai tre elementi che a McEwan sembrano interessare di più: una ricostruzione dei grigi, crudeli, esaltanti anni Settanta, prima che il Regno Unito passasse sotto il rullo compressore di Margaret Thatcher e il mondo intero si esaltasse di fronte al miraggio di un eterno bengodi finanziario; un ripensamento (ironico, malinconico) del suo percorso di scrittore, cominciato con una serie di racconti gotici e inquietanti, e sfociato in romanzi come lo stesso Miele, così – apparentemente – solidi e tranquilli; e infine, soprattutto, quella elaborata sequenza  di “improbabilità obbligate” che secondo il critico James Wood costituisce la cifra di tutti i romanzi di McEwan.

Il monologo della bellissima Serena Frome, laureata in matematica e appassionata lettrice di romanzi, incaricata dai servizi segreti  di attirare – a sua insaputa – il promettente scrittore Tom Haley dentro una rete di propaganda anticomunista offre così il pretesto a McEwan di raffigurare una Londra post-swinging e pre-grattacieli, di eleggere Tom a sua personale controfigura (le opere del giovane Haley, infarcite di  stranezze e perversioni assomigliano molto a quelle di Ian Macabre, come era soprannominato allora McEwan) e di condurre i lettori nel suo personale labirinto narrativo fino al colpo di scena finale, un colpo di scena – quasi inutile precisarlo – squisitamente letterario.

E leggendo il libro, con la sua ricostruzione meticolosa di un clima, quello della guerra fredda, che ci appare oggi lontanissimo, non può non venire in mente, a proposito di spy story, un confronto con l'evoluzione di James Bond, dai fasti di Dr No fino all'ultimo Skyfall, epopea dell'eroe stanco e della – passata – grandeur britannica, un confronto accettato dallo stesso McEwan, che nella penultima pagina di Miele porge un reverente omaggio a Ian Fleming, grande inventore di “improbabilità obbligate”.

Maria Teresa Carbone

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