SOCIETÀ

Una sottile, lamentosa, impronunciabile malattia

Nella mitologia le nascite e le morti avvengono così come il sole sorge e tramonta: nulla di più spontaneo si manifesta tra gli umani, così come tra gli dei. A questo pensavo durante la mia gravidanza, rileggendo I miti greci di Robert Graves, in cerca di un ritmo che cadenzasse i nove mesi in cui il mio corpo insufflava la vita in un altro. Invece l’unica cadenza che ha scandito il passare dei giorni sono stati, per me come per tutte, gli esami medici. Da subito, l’essere incinta si è manifestato come una condizione precaria da tener controllata, una sottile, lamentosa, impronunciabile malattia.

Prima ancora d’essere incinta il medico di famiglia mi aveva prescritto gli esami preconcezionali: gruppo sanguigno, Hiv, toxoplasmosi, citomegalovirus e altre impronunciabili malattie che dovevo scoprire se m’avessero mai contagiata; non li ho fatti, scaramanticamente, perché mi sembrava di sfidare la sorte. Come potevo sapere che avrei davvero aspettato un bambino?

Quando è stato il momento, diligentemente ho fatto i prelievi. Non immaginavo che nel corso del mese successivo sarei tornata all’ospedale altre quattro volte. Immaginavo invece che avrei guardato la mia pancia crescere come un palloncino, sferruzzando maglioncini, scrivendo poesie, guardando fuori dalla finestra, come chi, appunto, aspetta. Una perdita, poca cosa, aveva spinto il medico a controllarlo ancora l’ormone della gravidanza nel mio sangue, per tre volte a distanza di due giorni l’una dall’altra. Tutto a posto, ma è bene in ogni caso aspettare i canonici tre mesi per dare la notizia. C’è un protocollo in queste cose, lo impari subito.

Tocca poi il prelievo, ad entrambi i genitori, per verificare la possibilità che l’incrocio dei nostri geni non faccia emergere la fibrosi cistica. Le prime notti in attesa degli esami, del ritiro dei referti, sono mal dormite, poi sovviene l’abitudine. Esami del sangue, visita dal ginecologo, ecografia; esami, visita, ecografia, ancora e ancora.

Il successivo è un test incrociato fatto di un (altro) prelievo e un’(altra) ecografia, in cui si misura il naso del bambino e una sorta di cavità nei pressi della nuca, poi un programma interpola i dati e restituisce la probabilità di difetti genetici: cominci a farci l’orecchio a certi terribili pensieri.

L’idea che possa succedere qualcosa di brutto non ti lascia neanche a tavola: niente più affettati, eccezion fatta per quelli cotti per non rischiare la toxoplasmosi; idem per le carni crude o al sangue – addio carpaccio, tartare e bistecca sugosa –; niente pesce crudo, maionese o tiramisù, a rischio salmonella, e stando ad internet anche il gorgonzola va bandito. Frutta e verdura si salvano, ma da lavare in amuchina. Scrivo ad un noto consorzio di prosciutti per aver conforto, e nell’arco di poche ore ho sul pc due rassicuranti ricerche universitarie, eppure non una fetta di Parma o San Daniele metto più nel piatto, “mi hanno messo” una paura irrazionale.

Sui bugiardini leggo che questo e quel farmaco – praticamente tutti – hanno effetti teratogeni, ed io mostri non ne voglio fare, così mi tengo il mal di testa, il mal di gola e il mal di pancia: è come fossi malata, ma senza medicine.

Esami del sangue, visita, ecografia, esami, visita, ecografia, ancora e ancora. In quella moltitudine quasi me lo aspetto, che uno vada male. Mostro un segno ecografico che in letteratura correla con anomalie genetiche. Piango e mi chiedo cosa fare, se me la sento di affrontare l'esame invasivo per esser certa, ché ha un rischio di aborto; mi chiedo se quel rischio non sia superiore alla probabilità di malattia: val la pena correrlo? Vado in loop. Quando, stremata da quella che è solo un'eventualità, arrivo sul lettino dello specialista e mi viene detto che i segni allarmanti non ci sono più, mi addormento. Sono guarita, da un male che non ho mai avuto.

Non voglio più sottopormi a controlli. Mia madre ha fatto, forse, una sola ecografia, forse nessuna; ha mangiato salame e bevuto birra. Eppure dal protocollo non ti scosti, per quanto superi ogni volta l’esame, l’esame va ripetuto, come il sogno di chi vuol correre e sta fermo.

Si aggiungono i tamponi, controllano se ho preso l'Aids, se nel frattempo mi è venuto il diabete: tre prelievi a distanza di poche ore dopo aver bevuto un beverone zuccherino. Dottore possiamo farne a meno? Protocollo. Tra l’uno e l’altro leggo di Artemide, protettrice delle donne gravide, e non vedo l'ora di partorire, ma smetto di seguire il corso preparto all'ospedale, quando, dopo la lezione sull'anestesia epidurale, piango. Rischi, consensi da firmare, aghi e zona sterile: non voglio più sapere nulla, di più ancora: non voglio andare all'ospedale.

Ho visto le statistiche dei cesarei: quasi uno su due. Partorirò a casa. Ma è fortemente sconsigliato, benché per millenni tutti i bambini siano nati nelle case. Mi faccio convinta di seguire il protocollo per una volta ancora, concludendo la mia "malattia" nel suo luogo di elezione, all'ospedale. Invece la natura accelera e io non ho il tempo di razionalizzare.

Sono a casa che scrivo e dimentico il male che viene e va a onde, all’ospedale ci vado, ma all’ultimo, incontro un'ostetrica che mi aiuta a partorire con naturalezza e con umanità. Mi accompagna, mi incita, mi tranquillizza, mi lascia vicino mio marito, mi fa travagliare in vasca, mi lenisce un poco il dolore con una borsa dell'acqua calda. In quattro ore la mia bambina nasce, e io, che avevo finito con l'agognare la nostra separazione, per rinascere alla mia vecchia vita, invece soffro nel doverla lasciare andare. Succede che l'amo, come mi sarei immaginata di amarla nella pancia durante quei nove mesi, se non fossi stata tutto il tempo a controllarmi, a controllarla e a temere che non andassimo bene. Sono guarita, e partorendo ho compreso che non sono stata mai malata.

Valentina Berengo

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