SCIENZA E RICERCA

Dissesto idrogeologico: un codice svela le frane

Nel 2009 a Borca di Cadore nel bellunese; nel 2010 a Merano e a Montaguto ad Avellino; nel 2012 nelle Cinque Terre e in Lunigiana; nel 2013 nelle provincie di Parma e Reggio Emilia; nel 2014 a Roma; in Irpinia nel 2015. Solo negli ultimi sei anni in Italia, e solo per citare alcuni esempi, le vittime e i danni alle infrastrutture e ai centri abitati causate da gravi fenomeni franosi sono stati notevoli. Il nostro Paese, rileva il Rapporto di sintesi sul dissesto idrogeologico in Italia 2014 elaborato da Ispra, è a livello europeo uno dei più colpiti da eventi di questo tipo. Complessivamente sono state censite finora 499.511 frane su un’area di 21.182 chilometri quadrati, pari al 7% del territorio nazionale. Solo nel 2014 gli eventi franosi principali sono stati 211. La popolazione residente esposta al rischio di danni alla persona in Italia ammonta a 1.001.174 abitanti, 14.919 in Veneto. Ancora, 6.180 punti di criticità lungo strade e autostrade e 1.862 in corrispondenza della rete ferroviaria. Se questa è la situazione del nostro Paese, anche a livello internazionale frane e colate detritiche costituiscono uno dei più pericolosi rischi naturali e causano miliardi di dollari di danni, morti e feriti ogni anno. Le attuali conoscenze dei fenomeni franosi tuttavia sono insufficienti per fare previsioni affidabili, riconoscono gli scienziati. È necessaria una migliore comprensione dei meccanismi di innesco e propagazione, così da poter progettare le opportune strutture di protezione e stabilizzazione. Ed è necessario formare chi in futuro si troverà ad occuparsene. A questi obiettivi risponde il programma europeo MuMoLaDe (Multiscale Modelling of Landslides and Debris Flows), di cui l’università di Padova è partner. Avviato nel 2011, il progetto si volge nei prossimi mesi alle sue battute finali. 

Lorenzo Sanavia, docente del dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale dell’università di Padova e membro del gruppo di lavoro, spiega che per la previsione e il controllo delle frane si usano oggi metodi computazionali che fanno capo al “metodo degli elementi finiti”, si ricorre cioè a programmi di calcolo per la simulazione virtuale che permettono di capire quando un pendio diventa instabile generando una frana o una colata detritica. “La ricerca – argomenta – ha lo scopo di sviluppare dei metodi sperimentali e modellistico-numerici che migliorino quelli già esistenti, per predire la formazione delle frane, per prevederne l’innesco e la propagazione, la configurazione del deposito. Anche per progettare gli interventi di stabilizzazione delle frane e di protezione di persone, edifici e infrastrutture”. Come pozzi o gallerie di drenaggio per impedire che la pioggia, una delle maggiori cause di frane insieme ai terremoti, crei il collasso dei pendii. O l’utilizzo della vegetazione, dato che gli alberi da un lato con le radici legano i vari strati del terreno, dall’altro tolgono acqua attraverso la traspirazione. Un altro aspetto, quest’ultimo, studiato nell’ambito del progetto. 

In questo contesto Padova ha fatto la sua parte. “Fino a questo momento – spiega Sanavia – non esisteva a livello internazionale un modello numerico che permettesse lo studio delle frane in condizione non isoterme e parziale saturazione in dinamica”. In pratica non esisteva un codice numerico che permettesse anche di tener conto degli effetti termici, come in caso di frane catastrofiche. “Si pensi al Vajont. Attualmente l’ipotesi più accreditata per spiegare la forte accelerazione che ha avuto quella frana è pensare che il calore prodotto per attrito all’innesco sia stato tale da ridurre significativamente la resistenza meccanica e da far evaporare l’acqua nella zona di scorrimento. E ciò potrebbe aver formato un cuscino di vapore che ha contribuito ad accelerare la frana”. Ora nuovi modelli numerici consentiranno di dare risposte più precise, valutando la variante temperatura in modo più oggettivo.

Gli studiosi padovani hanno poi lavorato al perfezionamento degli strumenti computazionali attualmente disponibili per descrivere meglio il collasso in maniera quantitativa e oggettiva e non solo qualitativa. “Il problema – argomenta il docente – è che le teorie computazionali classiche non riescono a descrivere il collasso dei materiali e per farlo c’è bisogno di ‘arricchire’ tali teorie. Inoltre, mancava un criterio generale per la segnalazione dell’instabilità, di recente formulazione al Politecnico di Grenoble, Francia, partner del progetto. Noi ci siamo mossi in questa direzione, elaborando un modello numerico capace di fornire risultati quantitativi affidabili per descrivere l’instabilità dei pendii”. Il modello è stato poi utilizzato per studiare una delle frane di Sarno avvenuta nel 1998, poiché si era in possesso di dati di monitoraggio, assumendo dunque il caso come test. Se l’indagine scientifica ha avuto un peso rilevante e costituivo nell’ambito di MuMoLaDe, un obiettivo non secondario è stata anche la formazione di una nuova generazione di ricercatori in grado di lavorare con un approccio multidisciplinare nel campo della modellazione computazionale e fisica di frane e colate detritiche. Il programma ha consentito infatti di attivare 14 borse di dottorato di ricerca e due di post-dottorato e ha visto studenti e ricercatori muoversi nelle varie sedi consorziate lavorando dunque in laboratori diversi da quello di appartenenza. La formazione e la ricerca, sottolineano gli studiosi, sono ugualmente importanti affinché i modelli numerici elaborati possano essere trasformati da ‘strumento scientifico’ a metodo condiviso per fornire previsioni attendibili, affrontare i rischi geologici più pericolosi e offrire una classe di professionisti da impiegare negli enti di ricerca e nelle altre istituzioni interessate. 

Monica Panetto

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