SOCIETÀ

Due Italie, due populismi

Nel 1995 venne pubblicato un saggio postumo di Christopher Lasch intitolato “La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia” in cui si denunciava la progressiva autoreferenzialità dei leader politici ed economici statunitensi. L’analisi di Lasch era riferita al contesto statunitense, ma il dibattito a cui diede vita il suo contributo mostrò la validità più generale della sua diagnosi.

Le elezioni italiane del 4 marzo 2018 hanno sancito la vittoria di due partiti che, in forme diverse, hanno incarnato o incarnano la rivolta dei cittadini (non delle masse, per riprendere un altro famoso contributo di Ortega y Gasset del 1930). Cittadini, non masse, perché il risultato della Lega (non più Nord) e del Movimento Cinque Stelle rappresenta un indubbio successo di formazioni politiche che si sono sviluppate a partire dalla critica radicale al cosiddetto establishment (prima ‘Roma ladrona’ in un caso, poi ‘la casta’ nell’altro). La Lega ha quadruplicato i voti rispetto al 2013, mentre il successo del Movimento Cinque Stelle è stato più contenuto (+ 5%) ma solo perché partiva da un eccellente risultato elettorale del 2013. Un elettore su due ha votato per partiti accomunati da una qualche forma di anti-establishment (pur non essendo partiti anti-sistema). Sul versante degli sconfitti, partiti considerati ‘establishment’, come il Partito Democratico e Forza Italia, hanno subito una indubbia batosta elettorale.

In sintesi, è una vittoria di due partiti ‘populisti’ – sebbene in modo diverso: la Lega, in linea con il populismo ‘esclusivo’ rappresentato anche da altri partiti europei quali Front National; il M5S, più ambiguo, non propriamente assimilabile al populismo ‘inclusivo’ di Podemos, ma più lontano dal ‘modello’ Front National. Varianti di populismo, si potrebbe dire.

Ma come si spiega questo risultato? Primo: così come accade in tutte le democrazie, entrambi i partiti (all’opposizione tra il 2013 e il 2018) sono riusciti a costruire sul dissenso crescente nei confronti delle politiche adottate dai governi di centro-sinistra. A tal riguardo, l’enfasi posta dal governo Renzi sulle riforme costituzionali e la sconfitta subita nel referendum del 2016 sono state la prova generale per la sconfitta elettorale. Secondo: con l’accelerazione dei tempi della politica, l’elettorato ha percepito come una novità i leader di Lega e M5S mentre il leader del centro-sinistra Renzi potrebbe aver pagato un’eccessiva personalizzazione della campagna elettorale. Inoltre, Salvini e Di Maio hanno indebolito la forza della proposta renziana improntata sulla ‘rottamazione’. Eloquente è stata la battuta di Grillo riferita a Renzi: “l’abbiamo biodegradato”, in linea con il tradizionale ambientalismo grillino. Terzo: la proposta. Entrambi i partiti hanno insistito su temi quali il reddito di cittadinanza (Movimento Cinque Stelle) o salario minimo (Lega), la rinegoziazione dell’adesione dell’Italia all’Unione europea e la revisione delle leggi sul lavoro e sulle pensioni introdotte dai governi di centro-sinistra. Non solo protesta, quindi, ma anche proposte. Proposte che in alcuni casi potrebbero essere costose e quindi di non facile realizzazione, ma è noto che in campagna elettorale il tema delle ‘coperture’ non è mai tanto rilevante...

E ora? Nel rinnovato contesto tripolare, la situazione rimane molto fluida – quindi ogni previsione rischia di rivelarsi fallace. Ma proviamo comunque ad identificare alcuni scenari. Il primo – e, in questo momento, forse più probabile – potrebbe essere un accordo tra il M5S e il PD post-renziano con l’obiettivo minimo di realizzare una riforma elettorale che preveda una qualche forma di premio maggioritario ed eventualmente alcuni dei punti su cui i programmi convergono (ad esempio, in tema di inclusione sociale, economia e ambiente). Il secondo – altamente improbabile, ma possibile in assenza di alternative – vedrebbe una sorta di ‘grosse koalition’ tra il centro-destra e il PD con l’unico obiettivo di adottare una legge elettorale e andare nuovamente alle elezioni. Il terzo scenario, il più improbabile anche per ragioni numeriche, è un governo tra Lega Nord e M5S che metterebbe mano esclusivamente alla legge elettorale per poi tornare alle urne.

Indipendentemente dalle negoziazioni che porteranno all’elezione dei Presidenti di Camera e Senato e alla formazione del governo, si tratta di un’elezione che ha sancito da un lato (M5S) la normalizzazione di una proposta politica innovativa nei temi e nelle modalità di articolazione (ad esempio, seppur con numerosi caveat, il programma del Movimento Cinque Stelle è stato scritto in modo ‘partecipato’), e dall’altro ha visto l’affermazione di un partito etno-regionalista che si è trasformato con successo in un partito populista ‘esclusivo’. 

Paolo Roberto Graziano

PAOLO ROBERTO GRAZIANO

Paolo Graziano è Professore di Scienza politica presso l’Università di Padova, Professore a contratto presso l’Università Bocconi di Milano e Chercheur associeé presso l’Osservatorio sociale europeo di Bruxelles. È autore di diversi libri (monografie e curatele) e numerosi curatele di numeri monografici e articoli apparsi su riviste internazionali. Insegna Scienza politica, politica comparata, analisi delle politiche pubbliche ed è da diversi anni coordinator del Corso breve in ‘Europrogettazione’ dell’ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano. Oltre all’attività di insegnamento e ricerca, nel corso degli anni è stato consulente di Organizzazioni non governative (ONG), istituzioni locali, nazionali e europee

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