SOCIETÀ
Foreign Affairs: l'Italia un modello di stabilità politica
Foto: Tania/A3/Contrasto
Sull’ultimo numero di Foreign Affairs è apparso un lungo articolo, a firma di Nassim Nicholas Taleb e Gregory Treverton, che indaga sulle variabili che concorrono alla stabilità dei regimi politici. Si tratta di un contributo che mira a spiegare i destini molto diversi di alcuni paesi mediorientali, correlandoli con la loro storia politica recente. Il titolo del saggio sintetizza bene l’idea di fondo: The Calm Before the Storm, la quiete prima della tempesta).
L’ipotesi che si vuole avvalorare è che paesi con un buon livello di decentramento amministrativo, di diversificazione economica, di stabile alternanza di governo e – soprattutto –in passato già colpiti da periodi di instabilità poi superati, abbiano minori possibilità di finire vittime di violenti cambi di regime e di lunghi periodi di radicalizzazione sociale. Si tratterebbe quindi di definire una relazione reciproca tra stabilità politica e periodi di disordini, come suggeriscono le righe di catenaccio: Why Volatility Signals Stability, and Vice Versa.
Il lavoro è dettagliato e pieno di riferimenti storici, ma non esente da alcune pecche. I due autori spesso si lanciano in spericolate analogie, quasi mai giustificando la selezione dei paesi fatti oggetto di paragone e soprattutto senza considerare se questi stessi siano regimi democratici o autoritari e senza mai menzionare il ruolo e gli interessi (l’ingerenza vera e propria, in molti casi) di potenze straniere e organizzazioni internazionali nei diversi contesti presi in esame.
Il punto di partenza dell’articolo, e pietra di paragone per ogni successiva analisi, è il diverso esito che le proteste nei paesi arabi hanno determinato in Siria e Libano. Perché la Siria è ormai da tre anni avviluppata in una tremenda guerra civile mentre il Libano sta vivendo un periodo di transizione politica tutto sommato tranquillo? I due autori trovano la ragione di questi due destini differenti nella storia politica pregressa dei due paesi. La Siria veniva da decenni di assoluta stabilità, con il passaggio di potere da Assad padre, Hafez, al giovane Bashar portato a termine senza traumi. La Siria pre-Is era caratterizzata da un forte potere centralizzato, da un’onnipresente polizia di stato, da un’economia statalizzata e pianificata in stile sovietico. E il partito Baath, al potere dal 1971, esprimeva e includeva al suo interno tutte queste multiformi entità.
Nel 2011, allo scoppio delle prime insurrezioni in Egitto, molti osservatori avrebbero scommesso che la Siria, data la sua stabilità, sarebbe venuta fuori meglio di molti altri stati limitrofi dalla complessità delle primavere arabe. A distanza di quasi quattro anni invece, Taleb e Treverton rilevano come il Libano sia in una situazione molto migliore della Siria, sebbene dagli anni Sessanta a oggi abbia sempre vissuto in un clima di profonda instabilità politica. Il paese ha sofferto una guerra civile che è durata per quasi tutti gli anni Settanta e Ottanta, e nel 2005, dopo un periodo di calma apparente, l’assassinio del primo ministro Rafiq Hariri ha riportato il paese nel caos, seppure senza che la guerra si riaccendesse. Culla del movimento pan-arabo Hezbollah e da sempre al centro di scontri con Israele a causa della questione palestinese, per decenni la capitale Beirut è stata sinonimo di insicurezza, attentati e terrorismo.
Sorprendentemente, però, la percentuale di morti violente occorse in Libano nel 2013 è stata inferiore a quella sofferta dalla città di Washington, in un anno in cui sul suolo siriano sono state uccise più di 100.000 persone. La spiegazione offerta da due autori è che prima della guerra civile quella siriana era solo una pseudo-stabilità garantita da un controllo governativo ossessivo, quanto quello messo in piedi negli stessi anni dal gemello Partito Baath in Iraq, un altro paese attualmente sprofondato in una situazione di totale insicurezza con il venir meno del regime.
Paradossalmente, i lunghi anni di caos libanese sono serviti a rafforzare gli anticorpi del paese e a riformare e modernizzare lo stato. Beirut ha dovuto trasferire poteri alle unità amministrative locali, evolvere verso un modello economico moderno e affrontare le sfide del nuovo millennio con una struttura governativa meglio bilanciata. Ulteriore punto di forza del Libano rispetto alla Siria sono le ridotte dimensioni geografiche, che consentono un migliore controllo del territorio e pongono i cittadini più vicini ai centri decisionali e alle istituzioni. La fragilità dei sistemi politici è da ricercarsi in primo luogo nella loro rigidità.
I due autori intendono quindi elaborare una “teoria della fragilità” atta a predire quali regimi, solo apparentemente stabili, siano meno capaci di resistere agli stress posti da un’eventuale crescente conflittualità interna. I fattori di debolezza sarebbero i seguenti: struttura istituzionale iper-centralizzata, economia poco diversificata, debito pubblico molto elevato, scarsa alternanza di governo, nessuna esperienza recente di superamento di guerre civili o altre forme di violenza interna e recupero democratico successivo.
La stabilità centralistica è un’illusione, e forse è utile solo in ambito militare. Gli autori avvertono: pensate alla fine che ha fatto l’Unione Sovietica, e guardate invece i cantoni svizzeri, considerati non a torto una sorta di moderna evoluzione delle città-stato. Gli stati centralistici tendono a opprimere le minoranze etniche e religiose e nel lungo periodo un conflitto interno risulta inevitabile. Vedi l'Iraq, con la tensione sunniti-sciiti e la terza variabile rappresentata dai curdi nel nord. L’eccessiva concentrazione di potere in poche mani, pochi luoghi e pochi palazzi rende anche più facili eventuali colpi di stato, come accaduto nella Grecia dei Colonnelli nel 1967 o ancora oggi in molti paesi africani.
Il secondo fattore che garantirebbe stabilità e transizioni pacifiche è la presenza di un’economia diversificata. Paesi che dipendono da uno o pochi settori economici sono destinati a patirne le mutevoli condizioni a seconda del mercato. La Grecia dopo la crisi economica e l’Egitto dopo la rivoluzione hanno realizzato che dipendere quasi esclusivamente dal turismo mette a rischio l’intero paese, se una percepita instabilità fa diminuire il flusso di ospiti stranieri. Lo stesso vale per il Botswana, troppo legato alle miniere di diamanti. Occorre poi uno sviluppato settore privato: laddove gran parte dell’economia è in mano pubblica, fioriscono inefficienze, corruttele e storture del mercato.
Il terzo fattore è rappresentato dalla necessità di avere un ridotto debito pubblico: la fragilità di un paese nel lungo termine si misura anche dagli stock di debito detenuti da altri investitori, che siano privati o paesi stranieri. Dipendere da un mercato finanziario aggressivo e così interrelato come quello attuale è ancora più pericoloso per gli stati sovrani che per le aziende private, condannati come sono a non fallire e quindi a emettere altro debito o a dipendere ancor più da aiuti esterni (ancora la Grecia è portata qui a esempio concreto).
Il quarto fattore che previene la fragilità politica è la presenza continuativa di moderati cambiamenti politici, che solitamente, nei paesi democratici, si manifestano nell’alternanza di governo. È quello che accade nei sistemi politici più stabili in assoluto, come negli Stati Uniti, e in Gran Bretagna, dove non esiste un partito dominante e una viva competizione politica assicura alternanza, ricambio e un lento ma continuo fluire di riforme.
Il quinto e forse più rilevante fattore è legato alla storia politica di ciascun paese. L’aver superato fragilità in passato consente di reagire meglio a minacce simili nel presente e nell’immediato futuro. È come se i paesi avessero memoria, come un corpo in cui un’antica infezione avesse lasciato degli anticorpi tutt'ora vitali. Qui l’esempio portato dai due autori è quello di paesi asiatici come Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Thailandia e Filippine. Nazioni che hanno patito un collasso finanziario nel 1997-1998 e, in alcuni casi, sono state oggetto di colpi di stato e di turbolente rivolte. Secondo gli autori, grazie a queste difficoltà appaiono ora più stabili, riformate ed economicamente più solide.
La parte più interessante del contributo è quella in cui gli autori mettono alla prova gli strumenti elaborati dalla loro analisi nell'ipotizzare quali paesi appaiano più o meno fragili e a rischio nell'immediato futuro. L’Arabia Saudita, in primo luogo: totalmente dipendente dal petrolio, nessuna alternanza politica, fortemente centralizzata. E con una ricchezza petrolifera che ha finora tenuto sotto controllo le frizioni etniche tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita (che tra l’altro vive prevalentemente nelle aree dei pozzi). Situazione simile in Bahrein dove gli sciiti oppressi sono addirittura maggioranza nel paese, e stesso altissimo rischio per il Venezuela che ha un sistema politico centralizzato e iperburocratizzato, un’alternanza politica assente, un’economia quasi interamente basata sul petrolio e nessuna crisi superata in tempi recenti.
La Russia si troverebbe in una situazione simile se non fosse che il collasso dell’Unione Sovietica, avvenuto poco più di venti anni fa, le garantisce quella memoria storica e quegli anticorpi che possono metterla al riparo da ulteriori fragilità. Nella stessa situazione di moderata fragilità si trovano il Brasile che cresce economicamente ma che rimane centralizzato e burocratizzato; la Nigeria – dipendente dall’industria petrolifera, non decentralizzata ma che ha dimostrato di saper uscire da una pesante crisi economica negli anni Ottanta - e infine la Turchia, uno stato anch’esso altamente centralizzato e che non ha esperienza recente di sopravvivenza a stati di crisi. Inoltre la politica estera filo-islamista del governo Erdogan sta facendo diminuire gli investitori stranieri, fino a ieri ampiamente presenti nel paese.
Ma le sorprese più rilevanti che emergono dal lavoro di Taleb e Treverton sono lasciate alla fine e riguardano le grandi democrazie occidentali. In modo forse sorprendente per la percezione diffusa del lettore italiano, per tutto l’articolo l’Italia è menzionata come metro positivo di paragone e viene descritta come paese a rischio zero di fragilità. Questo grazie a una struttura amministrativa decentralizzata, all’aver superato più crisi economiche ed essere in una costante ma non violenta situazione di instabilità politica (i 14 primi ministri degli ultimi 25 anni sono citati a suffragio di tale descrizione). Sull’altro fronte vi è invece la Francia, anch’essa indebitata ma amministrativamente più centralizzata e senza dimostrabili trascorsi di risollevamento da crisi significative vicine. Un paese, in più, che soffre di una politica industriale dirigiste e della presenza di una minoranza musulmana emarginata e impoverita che ha già causato, negli anni, forti tensioni e per la quale le preoccupazioni sono oggi, drammaticamente, più forti che mai.
Marco Morini