SOCIETÀ

La guerra degli ultimi. Lettere e memorie dal fronte 1915-1918

Forse si dovrebbe riconsiderare, leggendo La guerra grande. Storie di gente comune, di Antonio Gibelli, una osservazione di Walter Benjamin sulla prima guerra mondiale. Il filosofo tedesco, in un saggio del 1933, scriveva che la guerra aveva cancellato nei reduci ogni capacità di comunicare e raccontare  l’inedita e radicale esperienza vissuta al fronte. Lo storico dell’università di Genova, invece, ci riporta all’interno di un vastissimo repertorio di testimonianze e scritture popolari che la Grande Guerra intendevano raccontare e ricordare, per non esserne travolti.

La "memorabilità dell’esperienza di guerra", come Gibelli la definisce, passerà attraverso un materiale ricchissimo composto da cartoline, diari, taccuini, memorie, lettere. È la guerra vista dal basso, la guerra vissuta e scritta dai fanti italiani analfabeti, semianalfabeti o pochissimo scolarizzati che scrivono con un italiano zoppicante, dialettale, incerto. "Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare", scriverà il fante "inalfabeto" Vincenzo Rabito in una memoria della sua vita pubblicata da Einaudi nel 2007.

Se ci sono luoghi dell’Italia contemporanea che più di altri, forse, possono rappresentare l’identità di questa nazione, sono gli archivi della memoria popolare su cui ha lavorato Gibelli: oltre a quelli ligure e trentino, c’è quello di Pieve di S. Stefano, un luogo meraviglioso che raccoglie i ricordi e le memorie di uomini e donne del Novecento italiano. Una immensa autobiografia collettiva.

Scrivere in guerra si rivelò una necessità esistenziale: basti il rimando all'essenziale libro sulle lettere dei prigionieri italiani delle Grande Guerra di Leo Spitzer, apparso già nel 1922, a testimoniarlo.

Dalla semplice cartolina banale e ripetitiva, le celebri cartoline in franchigia, alla lettera più personale, la necessità era quella di tenersi in contatto e di non interrompere il legame con il mondo al di là del fronte. Immersi in una guerra distruttiva e apocalittica che allontanò milioni di uomini dagli affetti e dai loro mondi vitali, la parola scritta diventava l’ unico filo che a questi li legava: "Tutte erimo redotte senza penziero, erimo inrecanoscibili, erimo tutte abbandonate del mondo", scrive ancora Rabito, uno dei "ragazzi del ’99", l'ultima classe di leva scaraventata al fronte appena maggiorenne.

L’ esperienza della morte di massa, la nostalgia di casa, le preoccupazioni per i familiari, le sofferenze e le privazioni dei prigionieri italiani, la fame: sono questi i temi che Gibelli riscontra nelle scritture che ha analizzato e contestualizzato in modo tale che le testimonianze private possano rivelare il loro valore storico e completare la narrazione della guerra 1915-1918. Nessun feticismo della microstoria, ma i molteplici punti di vista individuali di un gigantesco fatto collettivo. La Grande Guerra non è solo quella raccontata da Lussu, D’Annunzio o Jünger, ma è anche quella vissuta nelle parole scritte da uomini (e donne) comuni.

"Quello che si narra nelle pagine che seguono non è dunque la storia della guerra, ma la storia di questi singoli uomini e donne comuni […] la storia di questi individui non sarebbe intellegibile senza la storia dell’evento che prese e deviò le loro vite, delle sue dinamiche, delle sue logiche, delle sue procedure discorsive, logistiche, organizzative, della sua potenza plasmatrice. E, viceversa […] la storia di questo evento sarebbe molto più povera senza la storia delle loro vite"

Sono circa 4 miliardi i "pezzi" postali circolati tra il fronte di guerra e il  cosiddetto fronte interno. La lettera, che stabiliva un legame tra il presente militare e il  passato civile dei soldati, costituiva una forma di risarcimento, per quanto minimo, nell’orrore della guerra. Chi non ricorda, ne La grande guerra di Monicelli, come il momento della consegna della posta fosse per i soldati un momento atteso quasi religiosamente?

Scrisse Piero Calamandrei, addetto al servizio propaganda durante il conflitto, che"La posta è il più gran dono che la patria possa fare ai combattenti: perché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno fino alle trincee più avanzate, la patria appare ai soldati non più come idealità impersonale ed astratta, ma come una moltitudine di anime care e di noti volti". Credo che si possa accettare quello che sostiene il grande giurista, nonostante il mood un po’ liricheggiante e la  sordina sulla censura sempre vigile.

Gibelli ci offre anche autentici romanzi epistolari come quello di una coppia di contadini parmensi, Vittore e Maria. Uno scambio di lettere, sono 359, che assume, a tratti, toni di struggente intimità: "Caro marito mi dici che avresti piacere essere qui a mangiare una fetta di polenta sorda [?] e te lo chredo e io vorrei essere nuda come il verme della terra e avere il mio caro Marito qui con me ma chi sa se avero ancora grazia di vederti qui atorno a me avero solo la consolazione di insognarti e tutte le notti".

In questa lettera del 24 dicembre 1917 notiamo un paio di cose, dalla nostalgia e dalla fame, anche di una semplice fetta di polenta ma mangiata a casa accanto ai propri cari, all’eros a distanza, concreto e materiale, che mai, forse, i due avrebbero osato verbalizzare alla sublimazione onirica, nella chiusa della lettera.

Qualche osservazione finale. Nella sezione di memorie e diari dedicati alla rotta di Caporetto si leggono pagine che raggiungono un pathos che potremmo mettere accanto a quelle, per esempio, di Addio alle armi di Hemingway. Pagine che riportano la guerra, la sua tragicità e la sua assurdità fra noi, vive e concrete.

Come in Carlo Verano, classe 1894, contadino ligure: poco permeabile alla retorica dello Stato-nazione, come tutti gli appartenenti alle classi popolari, ha come unica preoccupazione portare a casa la pelle. Nei suoi ricordi mette bene a fuoco lo sbandamento dell’esercito, la ritirata confusa e disordinata e a tratti carnevalesca dopo il crollo del fronte.

"Tutti gridavano eccoli eccoli dietro e noi a fuggire senza nessuno comando. Si vedeva da una parte e dall’altra far scoppiare i cannoni con la gelatina, si vedeva dar fuoco a tutto e noi sempre a fuggire. Sono le ore 9 e in una casa che domando un pezzo di polenta per carità e me la diedero.Un po’ di forza la presi ma le forze non sono ancora quelle per camminare all’ungo. A si vede che il Signore e la Madonna mi aiuta. Passando per quelle vie si vede donne uomini ragazzi soldati animali carelli carozze automobili tutti nel fuggire."

Sebastiano Leotta

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012