UNIVERSITÀ E SCUOLA

Harvard e le altre... La reputazione non sempre paga

Nell’immaginario collettivo, ci sono poche cose di cui pensiamo sia legittimo vantarsi di più che di una laurea delle università di Harvard o Yale. Queste istituzioni, e le altre che appartengono al circolo esclusivo della cosiddetta Ivy League, sono viste ovunque come vere e proprie mecche del sapere, gli atenei più elitari, più selettivi e, di conseguenza, più prestigiosi al mondo. Dopo tutto esse sono alma mater per personaggi del calibro di presidenti da Franklin Delano Roosevelt a John Fitzgerald Kennedy e di celebrità dell’economia, del giornalismo e dello spettacolo da Paul Krugman a Bob Woodward a Jodie Foster, solo per citarne alcuni. Eppure, i liceali, e le loro famiglie, che devono decidere dove presentare domanda d’iscrizione e quanti soldi sborsare per completare i quattro anni di studio necessari a ottenere un Bachelor's degree, farebbero meglio a ignorare il nome dei vari college e concentrarsi piuttosto sull’area di specializzazione da perseguire. Perlomeno in termini di prospettive di impiego e guadagno, è infatti molto più importante la materia che si studia che non l’università che si frequenta.

“Il mercato dell’istruzione post-secondaria è un po’ come quello delle automobili, si basa molto sulla reputazione dei vari istituti anche in mancanza di prove tangibili che questa sia davvero importante – dice Anthony Carnevale, direttore del Center on Education and the Workforce di Georgetown University – È un mercato diviso per classi e, nel caso americano, per razze, quindi si ha un sistema tutto incentrato sullo status che non è però collegato ai risultati economici effettivi tanto quanto la gente vuole credere”.

La più recente edizione del rapporto “Hard Times” prodotto dal Center on Education and the Workforce ha trovato ad esempio che il tasso di disoccupazione per i neo-laureati, indipendentemente dalle loro alma mater, è più basso tra chi ha completato i propri studi nel settore dell’agricoltura e delle risorse naturali (4,5%), nelle scienze (5%) e nell’educazione (5,1%). Ed è più elevato tra gli architetti (10,3%) e chi ha lauree nel settore delle arti (9,5%). Diverso il profilo dei redditi. A guadagnare di più sono i neo-ingegneri, che con 57.000 dollari l’anno in media portano a casa quasi il doppio di chi ha solo un diploma di scuola superiore. Gli psicologi, gli assistenti sociali e, ancora una volta, gli artisti, incassano solo una media di 31.000 dollari l’anno, appena 1.000 dollari in più dei lavoratori che non hanno frequentato, o non hanno finito, l’università. “Se prendiamo Scienze dell’educazione – dice Carnevale – come laurea non porta a grandi guadagni ma più o meno assicura un impiego di qualche genere. In ogni caso, andare a Princeton non fa molta differenza, una volta che si diventa insegnante di scuola si ha lo stesso reddito di tutti gli altri colleghi”. 

Questa differenziazione nei guadagni generati dalle varie lauree è un fenomeno relativamente nuovo, degli ultimi tre decenni circa. “Prima degli anni Ottanta, le lauree producevano tutte guadagni simili – dice Carnevale – Poi dal 1983 circa abbiamo visto aumentare sia il “premio” universitario (ovvero la differenza tra i redditi dei laureati e quelli dei non-laureati) sia il gap tra specializzazioni”. Un fenomeno dovuto a una serie di cause concatenate: A) Sempre più americani, dai bagagli personali, accademici e professionali più diversi, hanno preso a laurearsi – il che significa che da un lato è aumentata la competizione e dall’altro è cresciuta anche, sia in positivo sia in negativo, la varietà nei livelli di preparazione e talento individuale. B) L’esplosione del business dell’istruzione post-secondaria negli Stati Uniti, che ha visto un gran fiorire di nuovi atenei piccoli e grandi, di qualità più o meno superiore, tutti determinati a convincere ancora più giovani a iscriversi, in qualsiasi dipartimento indipendentemente dai bisogni del mercato del lavoro, e a pagare le rette in continuo aumento. C) La globalizzazione e l’innovazione tecnologica, che hanno contribuito all’aumento esponenziale del valore delle professioni più legate a questi trend, in particolare proprio quelle altamente qualificate nell’ambito della scienza e della tecnica. 

Parallelamente alla disuguaglianza economica si è ampliata così anche quella educativa, e si è venuto a creare un sistema classista di titoli di studio. Tant’è che, a livello prettamente di reddito, piuttosto che laurearsi in Arte moderna o Psicologia, a un giovane americano conviene ottenere un diploma breve ma tecnico e studiare poi Picasso o Freud nel proprio tempo libero. “Oggi negli Stati Uniti si può prendere un certificato di un anno in aree come il riscaldamento, la ventilazione e l’aria condizionata e guadagnare il 25% in più del laureato medio”, dice Carnevale. 

È importante sottolineare che questo ragionamento non vale più quando si considerano gli studi post-laurea, che sono diventati pressoché obbligatori per i neo-laureati provenienti dalle facoltà meno remunerative. “Ci sono oggi lauree che non bastano più a guadagnarsi da vivere, settori dove i requisiti minimi includono perlomeno un master – dice Carnevale – Non solo la psicologia e l’educazione, ma anche, sorprendentemente la biologia, che offre prospettive reali peggiori di quello che verrebbe da pensare a meno che uno non faccia poi Farmacia (che negli USA è un corso post-laurea)”. 

Cosa dire quindi delle conoscenze, dei network di colleghi ambiziosi e promettenti, che si possono mettere assieme negli anni passati a Columbia University e poi mettere a frutto una volta laureati per trovare lavoro e accedere ai più ambiti circoli del potere politico ed economico del Paese? Secondo Carnevale, si tratta in gran parte di un “mito” non comprovato dai fatti, vero forse solo per quella minoranza di studenti, a Columbia e altrove, che sono figli di senatori di Washington o di banchieri di Wall Street e i cui i genitori hanno i redditi e i contatti per sostenerli in qualsiasi scelta professionale.

A tutti gli altri, piuttosto che aspettare con ansia la pubblicazione della nota classifica annuale delle migliori università americane prodotta da US News & World Report, tutta centrata sul loro prestigio, conviene piuttosto consultare quella redatta parallelamente dalla società di consulenza Payscale, che guarda invece al ritorno sull’investimento universitario (ROI), ovvero le prospettive di reddito dei neo-laureati rispetto al costo delle tasse universitarie da loro pagate. Al primo posto si piazza così l’Harvey Mudd College di Claremont in California, seguito dal California Institute of Technology di Pasadena, sempre in California e dal Stevens Institute of Technology a Hoboken in New Jersey. La prima Ivy ad apparire nel ranking, e l’unica nella top ten, è Princeton, cui tocca così suo malgrado di essere affiancata ad atenei, assai meno in voga e decisamente poco “cool” ma altrettanto, se non più, qualificanti come il Babson College di Boston e la Colorado School of Mines di Golden in Colorado. Non per niente si dice ‘non giudicare un libro dalla copertina’.

Valentina Pasquali

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