SOCIETÀ
L’Europa alla prova della polveriera-Libia
Dai tempi dell’impero romano all’avventura coloniale del 1911 – la famosa conquista dello “scatolone di sabbia” che secondo Giolitti avrebbe dovuto compensare le ambizioni del giovane stato unitario – quello tra Italia e Libia è sempre stato un rapporto complesso: apparentemente diseguale nei rapporti di forza, quasi sempre impegnativo oltre le attese per gli Italiani.
Un storia articolata e piena di sfaccettature quella che Michela Mercuri, docente di storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’università di Macerata, ha raccontato nel corso di una lezione tenuta nell’ambito del corso di Storia dei paesi islamici presso il dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell'antichità - DiSSGeA, soffermandosi sul suo ultimo libro Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (Franco Angeli 2017).
Un contributo utile per capire una realtà quanto mai complessa e sfuggente, soprattutto in un periodo in cui i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo tornano a essere centrali. In Libia oggi il potere appare conteso tra Fayez al-Sarraj, leader del ‘governo di accordo nazionale’ di Tripoli, riconosciuto dall’Onu e sostenuto soprattutto dall’Italia, e il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica ed è spalleggiato da Egitto e Russia. Anche se la realtà quotidiana è molto più frammentata: “Non ci sono solo di Sarraj e Haftar – conferma Mercuri al Bo – oggi molte milizie armate autonome controllano non solo il territorio ma anche l’economia del Paese, a cominciare dai pozzi di petrolio”.
Una situazione che affonda le radici nella stessa storia del Paese nordafricano, da sempre diviso tra fazioni e potentati tribali. Lo stesso stato libico, spiega la studiosa, è un frutto indiretto della dominazione italiana, che riunì in un’unica entità territori diversi come Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, a loro volta frammentati in zone d’influenza di oltre 140 tribù locali. Una separazione e una distanza che di fatto si mantennero anche dopo la fine del dominio coloniale, in particolare tra la regione orientale del Paese, dalla quale veniva il re Idris (del quale si narra che avesse detto agli inglesi: “A Tripoli non conosco nessuno, potrei fare solo il re della Cirenaica?”) e la Tripolitania che invece diede i natali al colonnello Muammar Gheddafi, dal 1969 al 2011 uomo forte del Paese.
Lo stato moderno insomma nel Golfo della Sirte non è mai nemmeno arrivato, ed è questa la differenza con altre realtà toccate dalle cosiddette primavere arabe, Tunisia ed Egitto in testa: nella Jamahiriya – il ‘governo delle masse’ teorizzato dallo stesso Gheddafi – il parlamento e i partiti politici non esistevano neppure come simulacro. Persino l’esercito, così fondamentale in tutti i regimi dittatoriali, nel 1988 era stato addirittura sciolto: il Paese insomma era tenuto insieme soprattutto dalla spartizione sistematica tra i vari clan familiari delle enormi ricchezze derivanti dal petrolio. Per questo nel 2011 la fine della dittatura ha significato anche il fallimento dello stato: la caduta del colonnello ha infatti portato il sistema al collasso, con la rinascita di fermenti localistici e rivendicazioni tribali tenuti a lungo sopiti.
Oggi nei media italiani la Libia tiene banco soprattutto a proposito dei barconi che continuano a partire alla volta dell’Europa. Un trend che al momento appare in diminuzione rispetto all’anno scorso, ma che rimane preoccupante per una parte consistente dell’opinione pubblica, mentre centinaia di migliaia di migranti sarebbero bloccati nel Paese in condizioni infernali. “Abbiamo fatto un accordo con la guardia costiera libica per non far partire i migranti e tenerli in centri di accoglienza che in realtà sono veri e propri centri di detenzione – spiega Mercuri –. Bloccare in questo modo il flusso di migranti non ha però senso, non solo da un punto di vista etico: se si chiude in questo modo una rotta se ne aprono subito molte altre, come sta accadendo in Marocco e in Tunisia. Sarebbero piuttosto necessarie vere politiche di sviluppo nei Paesi di partenza, e intanto bisogna pensare anche alle persone che si trovano già in Libia in questo momento, non solo con soluzioni-tampone”. Come uscirne? “Bisogna innanzitutto stabilizzare il Paese, coinvolgendo anche gli attori locali in un dialogo quanto più inclusivo possibile; soprattutto però l’Europa deve finalmente essere coesa”.
Il collasso dell’apparato statale in Libia ha infatti segnato il ritorno sulla scena delle potenze internazionali: in primo luogo Francia e Inghilterra, protagoniste del rovesciamento di Gheddafi del 2011, ma non solo. Nella zona operano infatti anche la Russia di Putin e soprattutto l’Egitto del generale Al-Sisi: una situazione che induce a domandarsi se non si stia assistendo a un vero e proprio ritorno del colonialismo. “Forse piuttosto non è mai sparito del tutto – conclude Mercuri –. Le potenze non hanno mai smesso di interessarsi a questi paesi, in particolare alle loro risorse, e di combattervi le sue guerre per procura: guardiamo a quello che sta accadendo in Siria, con decine di migliaia di morti. Finché però le potenze continueranno a mettere le mani su questi Paesi per salvaguardare i loro interessi, queste popolazioni non conosceranno mai pace e stabilità”.
Daniele Mont D’Arpizio