SOCIETÀ

L’umanesimo tecnologico di Donald Norman

Mescolando un ingegnere con uno psicologo si ottiene una mentalità tecnica con forti accenti umanistici o, rovesciando gli ingredienti, un ipotetico “umanista tecnologico”. Più concretamente, si ottiene Donald Norman, laureato in ingegneria elettronica nientemeno che al Mit di Boston ma docente di psicologia e scienze cognitive alla University of California, già vicepresidente di Apple, dirigente alla Hewlett Packard e UNext, cofondatore della Nielsen Norman Group, azienda di consulenza per la creazione di prodotti e servizi centrati sull’essere umano (human-centered design), una vita impegnata a immaginare le possibilità della tecnologia al servizio dell’uomo – e non il contrario, almeno nelle intenzioni.

Nel vederlo illustrare le sue opinioni a Padova, in un incontro recente, con uno stile che richiama inevitabilmente Steve Jobs – in piedi sul palco, microfono in mano, abbigliamento informale, atteggiamento molto alla mano mentre racconta difficoltà, sogni e progetti – è impossibile non pensare che il nostro mondo, piaccia o no, lo stanno disegnando di fatto persone così e con idee ben chiare. Che dietro un device utile o divertente riposi sì un opportuno pragmatismo ma anche una precisa filosofia dell’uomo, per quanto mimetizzata tra le pieghe dell’usabilità e dell’ergonomia. E chissà quanto consapevole.

La sua ultima passione è l’automazione totale delle automobili, da raggiungere quanto prima, per evitare che alla fallibilità umana del guidatore si aggiunga l’esasperata distrazione da tecnologia (autoradio, smartphone, navigatore…): una sorta di tecnologia che viene in soccorso di se stessa per facilitarci la vita. Delirio da ingegnere? Spesso il problema è, secondo Norman, il cattivo connubio tra uomo e automazione. L’immagine che si ricava dai suoi interventi è il perenne scontro tra due imperfezioni – quella dell’uomo e quella della tecnologia – che in qualche modo deve essere risolto. 

Se non possiamo perfezionare l’uomo, possiamo perfezionare la tecnologia. Funziona così?

Non sono certo che si possa rendere perfetta la tecnologia. Uomo e macchina sono entrambi imperfetti in modi diversi. Dovremmo quindi usare le macchine per quello che sanno fare meglio di noi, e lasciare agli esseri umani quel che sanno fare meglio delle macchine. In altre parole, potremmo usare una combinazione dei due mondi. Si tratta certo di un argomento complesso: tradizionalmente  abbiamo usato le macchine per sostituire il lavoro pesante, ma ormai è sempre più frequente automatizzare anche il lavoro “intellettuale”. La strada giusta è la collaborazione tra noi e la tecnologia. Le  automobili sono certamente un caso particolare, perché in quel caso l’automazione totale può aiutare a risparmiare incidenti e vite umane, ma in generale io credo nella collaborazione tra uomo e macchina, e nella centralità dell’essere umano. 

Ma la tecnologia può davvero gestire la complessità umana? Siamo in grado di progettare una tecnologia simile?

Non ce n’è bisogno. Noi vogliamo che la tecnologia faccia per noi le cose che non vogliamo fare o che non siamo bravi a fare. E d’altro lato, noi dobbiamo comprendere [il vero senso della] tecnologia. Se ci riusciamo, le due cose funzionano insieme. Le faccio un esempio: lei sta registrando la mia risposta, e questo le facilita il lavoro. Grazie alla tecnologia, lei può anche trasformare automaticamente la registrazione in un testo scritto. Può anche non conoscere nulla dei dettagli di progettazione del suo registratore o del suo funzionamento tecnico. Ma questo non toglie nulla alle sue capacità di porre domande e interpretare le risposte. 

Ma se l’utente finale non è consapevole dei veri meccanismi di funzionamento della tecnologia che utilizza, non rischia di dipendere da coloro che costruiscono quella stessa tecnologia?

Sì, ed è per questo che abbiamo bisogno che psicologi e ingegneri lavorino insieme. Gli ingegneri non capiscono le persone, e devono lavorare con chi invece le capisce…

Ma quindi l’utente non ha alcun bisogno di consapevolezza? Deve semplicemente utilizzare la tecnologia? Non vi è necessità di una “educazione” anche per gli utenti?

Beh sì, potrà certo impiegare del tempo per imparare a guidare, usare un computer o cucinare con il suo nuovo forno. Questa è l’educazione di cui ha bisogno. Ma lei può essere un’ottima cuoca senza essere consapevole dei processi chimici che stanno dietro alla sua cucina. Quando le cose funzionano, lei non ha bisogno di capire come funzionano. È quella che io chiamo la tecnologia invisibile. E sì, come utente lei contribuisce al suo miglioramento: un buon designer prende sempre in considerazione le difficoltà e le esigenze delle persone che utilizzano la tecnologia da lui progettata. 

Lei afferma spesso che sono le applicazioni che guidano la ricerca. Quindi la ricerca applicata vale più della ricerca fondamentale?

Applicare quel che sappiamo è importante, perché ci fa capire cosa ancora ancora non sappiamo. Quali sono i buchi della ricerca fondamentale, cosa dobbiamo ancora approfondire. Ricerca fondamentale e applicata sono entrambe importanti, c’è un rapporto di mutuo scambio, di reciproco sostegno. 

E il futuro?

Dipenderemo completamente dalla tecnologia: per stare al caldo, per produrre il cibo… E il nostro rapporto con la tecnologia continuerà a cambiare, soprattutto ora che stiamo creando – per la prima volta nella storia – una tecnologia intelligente. E questo porrà inevitabilmente tutta un’altra serie di problemi. 

Problemi – come ad esempio l’identità digitale, per cui Norman aveva intravisto molto  già vent’anni fa – che riguardano certamente il rapporto uomo-tecnologia ma soprattutto i rapporti sociali e di potere tra uomini, classi sociali, Paesi, in un mondo che pare volutamente diviso tra chi usa inconsapevolmente e chi progetta ciò che gli altri usano. E dove il potere sta certamente nella conoscenza. Parola di utente finale. 

Cristina Gottardi

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