SCIENZA E RICERCA

L'etica e il lavoro al tempo dei robot

Rise of the Robots: l’ascesa dei robot. È il titolo di un grosso volume (334 pagine) che Martin Ford, un imprenditore della Silicon Valley, ha appena pubblicato con l’editore Basic Books. Ed è il problema al centro di un dibattito (di una preoccupazione) crescente in tutto il mondo che ha trovato espressione, di recente, anche su Nature, la rivista scientifica più venduta al mondo. Ormai nessuno dubita che l’ascesa sia già in atto, che i robot siano già tra noi e che, nel prossimo futuro, macchine intelligenti dotate di sempre maggiore autonomia svolgeranno un numero così grande di funzioni che neppure la fantascienza riesce a comprendere, a  prefigurare per intero.

Da piloti di aereo a badanti, da chirurghi a giornalisti, da camerieri a operai, da soldati a operatori finanziari non c’è attività umana che i robot non ambiscono a coprire, promettendo maggiore efficienza e minori costi. 

Di qui tre categorie di domande che ci pongono Martin Ford e i quattro illustri scienziati che hanno partecipato al dibattito sulla Ethics of Artificial Intelligence proposto dal settimanale Nature sul numero del 28 maggio scorso.

1. Possiamo dare fiducia ai robot quando diventeranno completamente autonomi e prenderanno delicate decisioni – dall’uccidere un presunto terrorista a elaborare una diagnosi clinica a guidare l’auto o l’aereo su cui siete saliti – senza alcun controllo da parte dell’uomo? 

2. I benefici apportati dai robot andranno a vantaggio dell’intera umanità o saranno un (ulteriore) fattore di esclusione sociale e di aumento delle disuguaglianze tra gli uomini?

3. I robot favoriranno lo sviluppo (sostenibile) o daranno un colpo mortale all’economia umana? 

Il primo tema è molto vasto. E la domanda non ammette una risposta netta. L’unica risposta possibile è: analizziamo il problema caso per caso. D’altra parte chi non darebbe senza indugio via libera a un robot vigile del fuoco del tutto autonomo che, incurante delle fiamme, entra in un palazzo andato a fuoco per cercare di salvare una o più vite umane altrimenti perdute? Molto più problematico è invece fornire il lasciapassare a un robot soldato che sul campo di battaglia possa decidere in totale autonomia chi è il nemico e provvedere a eliminarlo. 

La questione è tutt’altro che accademica. In questo momento la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) degli Stati Uniti ha due progetti di sviluppo di Lethal Autonomous Weapons Systems (LAWS), ovvero di sistemi d’arma letali e autonomi. Il primo è il Fast Lightweight Autonomy (FLA), per lo sviluppo di minuscoli droni (grandi anche come una mosca) in grado di viaggiare a gran velocità negli ambienti urbani per dare la caccia ovunque, riconoscere e colpire un obiettivo. Anche se quell’obiettivo è un uomo. Il secondo programma è il Collaborative Operations in Denied Environment (CODE), per lo sviluppo di interi sistemi di aerei capaci di operare in territorio nemico per cercare, riconoscere e colpire con ogni tipo di arma anche in assenza di totale comunicazione con i comandi militari umani. In pratica, un’aviazione complementare composta da un intero stormo di robot completamente autonomi. La domanda che non solo molti filosofi, ma anche molti generali si pongono è: simili sistemi di arma sono compatibili con le leggi internazionali che regolano il comportamento in guerra? La questione è stata sollevata in sede di Nazioni Unite. E ha diviso anche nazioni dell’Occidente tradizionalmente alleate. I paesi che – come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o Israele – stanno sviluppando simili sistemi d’arma, sostengono che saranno in grado di imporre comportamenti legali anche ai robot guerrieri. Altri paesi – come la Germania e il Giappone – propongono in via preventiva la messa a bando totale dei Lethal Autonomous Weapons Systems (LAWS). I motivi che utilizzano i fautori del total ban sono gli stessi che inducono alla prudenza anche chi si occupa, per così dire, di robotica civile, come Manuela Veloso, docente di computer science presso la Carnagie Mellon University, che su Nature sottolinea come i robot non hanno e potrebbero non avere mai quella capacità tutta umana di percepire quasi tutto di ciò che accade nel luogo dove operano, di riconoscere e manipolare ogni e qualsiasi oggetto o quasi, di riconoscere e in parte comprendere ogni linguaggio scritto e parlato, di muoversi in qualsiasi ambiente. I robot non hanno e potrebbero non avere mai una capacità di distinguere, fine tuning, piuttosto raffinata. Per cui  possono essere complementari all’uomo, ma non possono sostituirli del tutto. Inoltre una loro partecipazione come entità autonome sui campi di battaglia contribuirebbe a deresponsabilizzare gli atti di guerra, rendendola più orrenda di quanto non sia già.

Non ci sono,tuttavia, solo i robot (potenzialmente) cattivi. Ci sono anche quelli potenzialmente buoni. Si pensi, a puro titolo di esempio, a robot abbastanza piccoli da poter navigare nel corpo di un uomo, elaborare diagnosi e/o somministrare terapie mirate. Molti pensano che questi robot rappresenteranno una nuova svolta in medicina. Vero è che si tratta per ora di una promessa e che non bisogna esagerare con le aspettative. Ma intanto Russ Altman, professore di bioingegneria, genetica, medicina e computer science alla Stanford University, si chiede: la robotica medica contribuirà a lenire o ad aumentare le health inequalities, le disuguaglianze di salute? Saranno accessibili a tutti o solo a pochi ricchi? Possiamo estendere la domanda: i robot saranno un fattore prevalente di integrazione o di esclusione sociale? 

Veniamo, infine, a Martin Ford e alla domanda che pone nel suo libro: i robot ci tolgono solo la fatica o anche il lavoro? L’imprenditore della Silicon Valley, la valle della rivoluzione informatica, non ha dubbi: ci stanno già togliendo il lavoro, sostiene. E non solo quello manuale, tipico dei colletti blu che infatti stanno sparendo dalle fabbriche. Ma anche quello dei colletti bianchi e in ogni caso più qualificato, quello dei medici, dei piloti, dei giornalisti. Non solo la classe operaia, ma anche la classe media sta scomparendo a causa del Rise of the Robots, dell’ascesa dei robot.  Non credete a chi dice che la loro è una “istruzione creatrice”, che presto nasceranno nuovi lavori. Quelli lì, avverte Martin, stanno già imparando a correggere se stessi e a migliorarsi e presto ci porteranno in un regime di “piena disoccupazione”. E allora o ci inventeremo un nuovo modello economico o sarà la catastrofe.

Martin Ford, probabilmente, esagera. O, almeno, così ci auguriamo. Ma certo la robotica ci impone, come già avevano previsto l’economista John Maynard Keynes e il matematico Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, di ripensare il rapporto dell’uomo con il lavoro. Se saremo bravi, nell’era dei robot noi umani potremo lavorare molto meno per lavorare tutti e vivere tutti una condizione di “ozio creativo”. Si tratta di organizzarsi. Certo l’esito non è scontato. Ma abbiamo un’altra opzione?

La domanda, retorica, rinvia a un’ulteriore riflessione. Noi scienziati, sostiene Sabine Hauert, esperta di robotica dell’università inglese di Bristol, abbiamo il dovere di portare sulla pubblica piazza queste tematiche, affinché tutta la società ne sia consapevole e inizi a operare le sue scelte. Avremmo bisogno di grandi sponsor come il fisico Stephen Hawking o l’imprenditore Elon Musk capaci di rompere il muro dell’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica internazionale.

E invece, sostiene Stuart Russell, professore di computer science presso la University of California a Berkeley, che molti di noi si stanno tirando indietro e preferiscono non parlare di queste cose.

Pietro Greco

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