Paolo Pombeni, storico e politologo di Bologna, ha da poco pubblicato Che cosa resta del ’68 (Il Mulino, 2018), in cui a 50 anni di distanza traccia un personale bilancio del movimento che segnò una svolta nella nostra storia recente. Ne dialoga con Fabrizio Tonello in due puntate, di cui questa è la prima.
Partiamo da una nota autobiografica: nel marzo del ’68 dov’eri e cosa facevi? Ti sei accorto di quello che stava accadendo?
Avevo 20 anni ed ero a Bologna, dove mi ero iscritto al primo anno di giurisprudenza. Me ne sono accorto sì perché abbiamo occupato la facoltà, fatto le assemblee e tutte le sceneggiate di allora. Ho partecipato al movimento fino alla fine di aprile; poi mia madre si ammalò gravemente e dovetti tornare a Trento, fino a fine di maggio, quando tornai a Bologna. Comunque non ricordo nulla di drammatico: scontri con la polizia praticamente non ce ne furono. Le facoltà erano fisicamente molto divise e c’erano molti meno studenti: di frequentanti al primo anno eravamo una sessantina. Dei professori alcuni tra i più progressisti – come Federico Mancini, ordinario di diritto del lavoro e uno dei fondatori del Mulino, persona di grande carisma che a me piaceva moltissimo – erano dalla parte degli studenti, ma la maggior parte se ne lavava le mani. Ce ne fu solo uno, il professore di diritto romano, che si chiamava Enzo Nardi ed era un vecchio reazionario (quando a lezione lui entrava tutti si alzavano in piedi; una volta uno non si alzò per distrazione e lui fece una piazzata straordinaria) che si rifiutò di fare gli esami a tutti quelli che avevano occupato. Per noi fu un grande vantaggio, perché era tremendo, bocciava tutti, mentre fu sostituito da un altro che era una pasta d’uomo: presi addirittura 29!
Nel ‘69 la cosa di fatto si sgonfiò, rimasero solo quelli che in qualche modo si erano “professionalizzati”, che erano cioè entrati in Lotta Continua o in Potere Operaio ma che all’università facevano poche cose… Gli altri presero ciascuno la loro strada; io personalmente avevo incontrato il direttore della rivista cattolica Il Regno e lì cominciai a fare pratica come redattore. Per un giovane era un posto molto interessante, uno dei ponti di comando del dissenso cattolico; poi nel ‘71 lo smantellarono: licenziarono gli unici due laici, il direttore Gabriele Gherardi e me.
A Trento come andava invece?
Sociologia di Trento era un mondo a sé rispetto al Trentino, dove il movimento ebbe i caratteri soprattutto di una contestazione ecclesiale. Tanto che la DC a causa del ’68 avrebbe quasi voluto chiudere l’università; però il presidente della Provincia autonoma, il democristiano Bruno Kessler, difese fino all’ultimo la sua creatura.
Nel tuo libro scrivi che “bastò un soffio e tutto crollò come un castello di carte”. Mi piacerebbe lo spiegassi; la mia impressione, al contrario, è che ci sia stata una trasformazione dei costumi, ma che nulla crollasse: il Sistema, come veniva chiamato allora, se la cavò benissimo e continuò a produrre presidenti democristiani fino al ’94, poi postdemocristiani. Personalmente ho sempre visto questo lungo processo come una prova della grande resistenza dell’establishment: nemmeno le crisi economiche e internazionali o il terrorismo lo fecero crollare.
Hai ragione, questa cosa va spiegata. Non intendevo dire che il sistema andò a scatafascio, ma che l’assalto degli studenti venne sostanzialmente accolto. I giovani divennero gli eroi del tempo, nessuno chiese spiegazioni: così perlomeno sembrò reagire la parte visibile dell’opinione pubblica avanzata. Il sistema reagì “acquattandosi”, non cercando una contrapposizione con quelle forze. Usarono una tecnica nello stile delle arti marziali giapponesi: i “contestatori” arrivavano di corsa e loro aprirono la porta per farli andare a sbattere. In questo senso il sistema crollò e soprattutto all’università non ci fu resistenza: “avete ragione, l’università e la scienza fanno schifo, cambiamole!”. In quel momento sembrò che tutto crollasse. Molti anni dopo, quando mi capitò di fare esami in prigione ad alcuni studenti accusati di essere fiancheggiatori delle BR (li trasferivano direttamente dall’Asinara per farceli esaminare), loro si lamentavano che in carcere non potevano leggere la stampa alternativa ma solo i giornali borghesi. La cosa mi faceva ridere perché, mentre giornali come Lotta Continua erano in piena fase di autocritica, i principali organi di stampa invece non risparmiavano accuse al governo e alla società. Se fossero stati rivoluzionari “seri” avrebbero dovuto essere contenti di poter cogliere i frutti della loro rivolta. Il trend era insomma un po’ quello: i giovani erano l’avanguardia, assoluta e vincente, e vennero accreditati di una capacità di cambiamento che in realtà non avevano; o meglio che con il senno di poi hanno dimostrato di non avere.
Questo ci porta a discutere del “lungo ‘68”, cioè di quello che è accaduto prima e dopo. Sui giovani forse tutto era iniziato nel ’61: Bob Dylan, i Beatles, le minigonne… Questa generazione del ‘68 in realtà non nasce addirittura 10 anni prima?
Nel libro faccio questo paragone tra il 1968 e il 1848; anche qui gli storici prima parlavano di grande rottura, poi c’è stato un recupero dei decenni precedenti e si è visto che c’era stata una serie di fermenti preparatori già nell’età della Restaurazione, che in pratica le rivoluzioni non nascono dal nulla. Io credo che la stessa cosa valga per il ‘68, come giustamente dici; tutto è stato preparato prima e il ‘68 ha rappresentato la maturazione di questa lunga incubazione. Forse anche per questo la vittoria è stata facile: perché era stata lungamente attesa.
Questa è una metà della storia. Stavo leggendo questi due grossi volumi di Micromega e mi ha colpito l’intervento di Massimo Cacciari Quale ‘68, in cui spiega che tutto è cominciato con gli scioperi alla Fiat del ’62 e la nuova classe operaia. Tu condividi questa posizione?
Dipende dal punto di vista: certo che ci sono state queste premesse, di cui il 1968 è stato come dire l’apice finale; poi però, come per il 1848, ci sono gli anni che diventano emblematici. Bene parlare degli scioperi della Fiat, nessuno però allora li interpretava come qualcosa che stava cambiando il mondo. C’erano gli episodi, ma è stato il ‘68 ad unirli e a portarli davanti all’opinione pubblica. Anche perché il ’68 non è stato un fenomeno solo italiano, ma mondiale. Gli storici sanno che non è il giorno in cui Colombo sbarca in America che cambia il mondo, quello è un episodio: il famoso libro Autunno del Medioevo di Johan Huizinga diceva proprio che non ci sono i passaggi di età ma solo stagioni di preparazione, che possono essere anche molto lunghe. Il ‘68 è stato il momento finale, come di uscita da questa terra di mezzo. E per certi versi di uscita parziale perché, come dicevi prima, non è che il mondo alla fine sia cambiato del tutto.
Quanto è stato importante per te, per le persone che conoscevi e i gruppi in cui eri inserito, il Vietnam?
Le questioni dominanti allora erano due, anzi tre. Il Vietnam, che era quella più violenta, e accanto a questa sicuramente il mito dell’America Latina, con Che Guevara. Per certi versi questo è stato addirittura più importante, perché era una civiltà di una società apparentemente più simile a quella europea anche dal punto di vista religioso e questo era importante per i gruppi cattolici. Il terzo aspetto, che però allora stava declinando in quel momento, era quello dell’Africa, con il famoso libro di Frantz Fanon I dannati della Terra e il film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri. Certo il Vietnam, con la copertura mediatica che ha avuto e il suo aspetto di crisi della potenza egemone del capitalismo, ha rappresentato il problema fondamentale, anche se magari era visto in modo superficiale, secondo il quale tutto il bene e il male stavano da una parte sola.
Hai riflettuto sul ruolo della televisione nella guerra in Vietnam?
La foto dell’ufficiale sudvietnamita che spara in testa a un vietcong prigioniero apparve sulla copertina di un settimanale si sinistra, 7giorni, diretto da Ruggero Orfei ma finanziato da Carlo Donat-Cattin. L’offensiva del Têt nel gennaio 1968 fu un momento di grande identificazione, ci sembrava Davide contro Golia, mentre la guerra dei sei giorni in Israele nel 1967 era stata più complicata, la ricordo quasi come un momento di crisi identitaria. Israele era l’erede dei sopravvissuti ai campi di sterminio, ma allo stesso tempo i palestinesi avevano perso la terra: lì era molto più complicato schierarsi, rispetto ai piccoli Vietcong che con biciclette e sandali resistevano ai bombardieri che distruggevano la giungla con il napalm.
Sempre sulla questione della televisione e dei giornali il sociologo americano Todd Gitlin ha scritto che il ’68 è avvenuto quando “The Whole World Is Watching”, che è il titolo di un suo libro di qualche anno dopo.
Questo indubbiamente è vero: c’è ad esempio un libro di Walter Benjamin che sottolinea quanto furono importanti i documentari al cinematografo per l’ascesa dei fascismi. I giovani si videro rappresentati: erano finalmente attori sociali e tutto il mondo parlava di loro. Non c’erano servizi contro di loro, ma solo un’enfasi romanticheggiante e positiva.