Non sappiamo esattamente quando, ma gli esperti sono concordi nell'affermare che nel giro di qualche mese avremo finalmente a disposizione un vaccino contro il Covid-19. In Russia e Cina è già successo, ma i vaccini non avevano ancora superato i test di efficacia. Ora però c'è una novità: il 2 dicembre nel Regno Unito la Medicines and Healthcare Products Regulatory Agency (Mrha) ha autorizzato l'uso emergenziale del vaccino della Pfizer (sviluppato in collaborazione con BioNTech). In caso di emergenza sanitaria, infatti, il Regno Unito ha la facoltà di bypassare le direttive europee, che probabilmente daranno inizio alle procedure nel resto del continente per fine dicembre o inizio gennaio: la priorità dell'Europa, infatti, è quella di immettere sul mercato un vaccino efficace, e non solo sicuro.
In Italia la questione è più delicata, e non solo a livello normativo: c'è una forte diffidenza verso i vaccini di qualunque tipo, e se la riscontriamo anche per quelli rodati da tempo (per esempio quello contro il morbillo) bisogna aspettarsi che per una novità del genere, che sarebbe approvata tra l'altro a tempo di record, in linea con la situazione di emergenza in cui ci troviamo, le preoccupazioni saranno ancora maggiori. Come tutti i vaccini, infatti, anche quelli che sono in corso di sviluppo contro il Covid-19 hanno degli effetti collaterali. Prendiamo il caso del biologo computazionale Luke Hutchison che quest'estate si è offerto volontario per la sperimentazione del vaccino di Moderna: anche se non sa se ha ricevuto il vaccino o un placebo (i test infatti si svolgono con il meccanismo del doppio cieco) sta di fatto che dopo l'iniezione il braccio gli si è gonfiato moltissimo, e gli è salita anche la febbre a 39°. Nulla di particolarmente grave, i sintomi si sono risolti nel giro di pochi giorni, ma Hutchison lamenta il fatto di non essere stato preparato a tutto questo e di essersi conseguentemente allarmato. È vero, sintomi come questo si verificano "solo" nel 2% dei casi, ma come fa giustamente notare su Science Meredith Wadman, se somministriamo il vaccino a 35 milioni di persone, ne avremo 700.000 con la febbre alta e un bello spavento, se non vengono preparate alle possibili conseguenze.
E "preparazione" è la parola chiave, quando si parla di comunicare ai cittadini che il rapporto costi/benefici di un vaccino approvato è sempre sbilanciato verso i secondi. C'è bisogno di costruire un sistema di fiducia nei confronti della vaccinazione, ma non è un lavoro banale, perché ci sono ancora molti dubbi e resistenze, come conferma Daniel Fiacchini, dirigente medico del Dipartimento di Prevenzione Asur, AV2, e autore di varie pubblicazioni sul fenomeno dell’esitazione vaccinale: "I determinanti di esitazione che emergeranno saranno in particolare relativi alla “confidence” ovvero alla fiducia: nelle industrie farmaceutiche che producono il vaccino, nelle istituzioni centrali che lo raccomandano, negli operatori sanitari che promuovono la vaccinazione. Poi ci sono determinanti relativi al vaccino in sé: si tratta di un nuovo vaccino, prodotto rapidamente, autorizzato in tempi insolitamente celeri, e questi sono elementi che notoriamente generano esitazione. Infine ci sono i determinanti individuali: ogni persona è unica, ha il proprio sistema di valori, le proprie credenze, le proprie aspettative, la propria percezione dei rischi e dei benefici collegabili ad un determinato vaccino: sono sicuro, ad esempio, che il vaccino sarà complessivamente ben accettato dagli anziani, coloro che hanno subito le peggiori conseguenze da questa pandemia pagando il tributo più alto in termini di ospedalizzazioni e morti".
Ma come possiamo aumentare questa fiducia in chi invece propende per un'atavica diffidenza? In realtà sono stati fatti vari passi nella direzione di una corretta comunicazione medica, ma nel complesso sembrano non bastare, come conferma Eva Benelli, giornalista tra i soci fondatori dell'agenzia di editoria scientifica Zadig ed eperta in comunicazione istituzionale sanitaria: "Purtroppo non è stato mai raggiunto un approccio comune: il nostro paese non ha ancora raggiunto la maturità in questo senso e in Italia i centri vaccinali sono regionalizzati, quindi possono presentare capacità di comunicazione diverse a seconda del luogo in cui ci troviamo. La stessa cosa avviene quando il vaccino viene somministrato dal medico di base o dal pediatra. Secondo la mia opinione personale in tutti gli ambiti, e non solo in quello medico, c'è un ritardo culturale delle istituzioni pubbliche nella comunicazione con i cittadini e nell'ambito medico questa carenza costituisce un problema grave. Qualcosa si sta facendo, sia a livello locale che per iniziative proposte dall'Europa, e stanno timidamente nascendo linee guida comuni: la produzione teorica non manca, il problema è tradurre tutto questo nella pratica, visto che non esiste una gestione capillare di tutte queste indicazioni. Del resto, nel corso di laurea in Medicina alla comunicazione medico/paziente è dedicato un esame quando va bene, non si è ancora colto a fondo il valore di questa skill professionale, in particolare non c'è grande entusiasmo da parte dei decisori: a volte lungo la gerarchia ci si scontra con il disinteresse di chi potrebbe stabilire di sistematizzare queste competenze. I corsi rimangono molto apprezzati, ma non sono svolti in numero sufficiente".
“ I divulgatori dovranno informarsi nel miglior modo possibile, dovranno capire il funzionamento di un nuovo vaccino, come quello ad RNA messaggero, e dovranno cercare di rendere semplice e comprensibile quello che non lo è immediatamente Daniel Fiacchini
Rimane l'opzione mainstream, anche se di recente non si può dire che la tv abbia dato un grande aiuto in questo senso: cosa si può fare per migliorare la situazione? "A breve non si può fare nulla - continua Benelli - e quello che è successo con l'infodemia già lo dimostra. All'epoca dell'H1N1 c'era stata una reazione di sfiducia generale da parte dell'opinione pubblica ed erano stati fatti degli investimenti per migliorare la comunicazione medica. Se però dobbiamo giudicare i risultati da quello che si è visto di recente, non sono consolanti. E non è solo un problema dell'Italia: prendiamo l'Inghilterra, che ha fatto passare come un successo della Brexit il fatto di poter procedere alla vaccinazione senza rispettare i tempi decisi dall'Europa. Non solo non è vero (era una possibilità prevista proprio dalle norme europee), ma è propagandistico, mentre ci vorrebbe una maggiore trasparenza nei confronti dei cittadini. Non sono nel complesso molto ottimista sulla comunicazione attuale a tema vaccini. Se poi le persone si vaccineranno o meno, è un altro discorso: credo che alcune persone abbiano sviluppato delle capacità critiche proprie, indipendenti dall'informazione istituzionale, e su questo ho più fiducia. Per tutto il resto ci sono molti margini di miglioramento".
Più ottimista, invece, Fiacchini: "Credo che per la prima volta nella storia le istituzioni centrali (Ministero, ISS, Comitato tecnico scientifico, etc) possano affrontare la comunicazione del rischio in maniera sistematica e scientifica, come non è mai stato fatto in precedenza. Ci sono documenti OMS (mi viene in mente la guida “Vaccine Related Events: managing the communication response”) che vanno presi in considerazione, studiati, applicati, adattati alla realtà italiana. Abbiamo la necessità che la comunicazione del rischio sia ben governata. La pandemia e la preoccupante infodemia che la sta accompagnando hanno fatto emergere personalità di spicco, veri e propri influencer che hanno grandissime responsabilità quando parlano e si esprimono, magari relativamente ad argomenti di cui non sono reali esperti. Il Ministero li coinvolga in anticipo, li richiami alle proprie responsabilità in maniera non paternalistica. Spero vivamente che nelle prossime settimane tutti i comunicatori istituzionali, e quelli che potranno ritagliarsi spazio nei media, abbiano l’intelligenza di parlare la stessa lingua, la lingua della scienza ovviamente, e di anteporre il bene comune alla propria visibilità personale. I divulgatori dovranno informarsi nel miglior modo possibile, dovranno capire il funzionamento di un nuovo vaccino, come quello ad RNA messaggero, e dovranno cercare di rendere semplice e comprensibile quello che non lo è immediatamente. Dovranno inoltre “parlare la stessa lingua”, che non significa dire le stesse cose ma muoversi nello stesso spazio del sapere scientifico. I media, dal canto loro, avranno la responsabilità di non cercare necessariamente visibilità a scapito della correttezza scientifica: invitino solo veri esperti in ambito vaccinale, diano spazio alla scienza e non alle opinioni, evitino di garantire la “par condicio” quando si accenderanno discussioni attorno ai temi vaccinali, evitino cioè l’errore giornalistico del false balance o “errata par condicio” che tanto ha fatto male negli scorsi anni quando si parlava di vaccini".