CULTURA

Nous, la banlieue raccontata senza retorica né pregiudizi

Per raccontare al cinema le periferie, la marginalità, l’immigrazione, in genere ci si affida a visioni estreme. Da un lato il degrado, la povertà senza riscatto: dall’altro il conflitto, la criminalità, gli scontri che spesso scaturiscono da concentrazioni di comunità in aree disagiate e fortemente popolate.

Nous, documentario della regista franco-senegalese Alice Diop, sceglie una via diversa, e in apparenza per nulla cinematografica: mette in scena l’assoluta normalità. Leone d’Argento a Venezia per il recente Saint Omer, film di finzione (ispirato a una vicenda reale) sul processo a una donna nera che uccide la propria bimba, Diop è un’autrice che cerca di rovesciare luoghi comuni e narrazioni superficiali sulla condizione degli immigrati neri, analizzandone i caratteri e il disagio in modo asciutto, non pietistico. Nous, uscito pochi mesi prima di Saint Omer, è una carrellata “on the road” che segue l’umanità disseminata lungo un tracciato ai confini della metropoli, secondo uno schema non nuovo (pensiamo a Sacro Gra di Gianfranco Rosi, in cui era il raccordo anulare di Roma a fungere da scenario e fil rouge di tante piccole storie). In Nous la periferia esplorata è la vastissima banlieue parigina, e il percorso seguito nella storia è quello della Rer B, uno dei treni suburbani che fendono la città e ne collegano le lontane appendici. Il film trae spunto dal libro Les Passagers du Roissy-Express di François Maspero, collage letterario e fotografico di storie lungo le 38 fermate della Rer.

A rendere interessante lo sguardo di Nous è il metodo di fondo. L’autrice non privilegia in partenza ambienti, etnie, strati sociali. L’intento è ricordarci, o spiegarci, che la grande entità metropolitana non può essere letta a senso unico: perché se è innegabile che esistano sacche di malessere acuto, tensioni, convivenze al limite, il tessuto connettivo di questo territorio si compone di storie ordinarie, diversissime per ceti, provenienze, abitudini. Così, a sorpresa, la lunga, silenziosa sequenza iniziale ci mostra tre persone bianche, due adulti e un ragazzo, immobili nel bosco ad attendere il fremito di qualche animale. Capiremo alla fine di Nous che rappresentano una comunità agli antipodi di ciò che il nostro concetto di periferia ci farebbe immaginare: fanno parte di una società di caccia con i cani, i cui adepti sono impegnati a cavallo, in costume d’epoca, ad attraversare la foresta in cerca di prede. La banlieue, intende Diop, è anche questo, così come l’immigrato del Mali che dorme in macchina e ogni giorno ripara auto in officina, cui è dedicato il secondo blocco narrativo.

Fin dall’inizio, dunque, Diop ambisce a offrirci un affresco della periferia che renda conto della sua grandiosa eterogeneità, ma anche della poesia dell’ordinario. Incontriamo, di volta in volta, storie e contesti lontani tra loro: bimbi neri che si divertono usando del cartone come scivolo, ragazze di origine africana che scherzano su amore e matrimonio, ma anche una bianchissima platea di fedeli che a St. Denis ascoltano, commossi, il  testamento scritto da Luigi XVI prima di cadere sotto la ghigliottina. Ogni sequenza è mostrata senza commento né musica, scandita solo dagli effetti sonori dell’azione e, spesso, dallo sfrecciare dei treni Rer. La narrazione è asettica ma non impersonale: l’autrice riserva molto spazio a se stessa e alle sue memorie, che intreccia con la realtà di oggi. Nata nella banlieue da genitori immigrati dal Senegal, Diop rievoca il cammino dei familiari verso un’opportunità di lavoro e stabilità, attraverso alcuni vecchi video familiari della madre, morta molto tempo addietro, e un’intervista al padre, mancato da poco, girata da lei stessa qualche anno prima. Ne emerge un racconto sereno, mai nostalgico, segnato dallo sbarco a Marsiglia dall’Africa, l’avanzamento economico ma anche il progressivo, inevitabile perdersi delle radici: quando la regista viene invitata dal padre a contribuire al fondo che assicurerà ai familiari di essere sepolti in Senegal, Diop esita, e infine decide che la sua patria è solo la Francia, suscitando nel padre solo un dolore muto.

Di matrice familiare è anche un altro spunto narrativo: Diop segue la giornata lavorativa di sua sorella, un’infermiera che assiste anziani di casa in casa. Il suo piccolo viaggio tra le abitazioni del quartiere è un modo di entrare in contatto con mondi minimi eppure ricchi di ricordi, sorrisi e narrazioni: come la signora di origini bretoni conquistata (e salvata) da un italiano “che all’inizio abitava in una baracca”, un dettaglio che, attraverso le generazioni, ci rammenta quanto universale sia la sofferenza di chi cambia vita in cerca di fortuna. Periferia è anche il museo-memoriale di Drancy, sul sito di un campo di internamento da cui vennero deportate decine di migliaia di ebrei verso Auschwitz e altri luoghi di sterminio. Ma periferia è anche lo scrittore (bianco e francesissimo) Pierre Bergounioux, la cui opera si fonda sul recupero della memoria locale della regione di Corrèze: un alter ego di Alice Diop, che lo intervista in nome di un’affinità profonda, il desiderio di dar voce a persone e storie comuni che difficilmente suscitano l’attenzione di media e intellettuali.

Sulla visione di banlieue che emerge da Nous si può discutere: Diop esclude, quasi programmaticamente, la dimensione del disagio estremo, del conflitto sociale, dell’odio interetnico e interreligioso. Ma proprio per questo il suo sguardo di franco-africana è più originale e inatteso: per il desiderio di osservare in modo globale, senza filtri precostituiti né visioni etnocentriche. La sua banlieue è un crogiolo di volti, caratteri, personalità, non necessariamente “minori” o marginali: soltanto fuori dai riflettori. La povertà e la disuguaglianza sono solo sfiorate, sussurrate, non perché non interessino, ma perché costituiscono solo uno dei mille elementi dell’affresco. Se un messaggio scaturisce da Nous, è che l’ordinarietà, o l’aspirazione ad essa, è un valore, e non una colpa. Non è poco, nel mondo delle urla social e dell’egolatria.

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