Giovan Francesco Gessi (Bologna 1588 – 1649) Morte di Adone
Tra i temi che costituiscono la cifra più ‘attuale’ e immediatamente riconoscibile dell’opera ovidiana ricorrono la concezione dell’amore, la metamorfosi, l’esilio: tutti e tre, in forme e con linguaggi diversi, sono raccontati nella ricca e scenografica mostra (Ovidio. Amori, miti e altre storie) che si è inaugurata a ottobre a Roma, alle Scuderie del Quirinale, con la cura di Francesca Ghedini, archeologa presso l’Università di Padova.
Il rapporto tra i testi ovidiani, le immagini in cui sono stati tradotti, e le vicende politiche e culturali dell’epoca in cui visse il poeta, era da tempo al centro di una ricerca collettiva, curata da Ghedini: gli esiti di questa ricerca costituiscono le ragioni e il valore della mostra, che mette in affascinante condivisione temi e prospettive di ricerca, indagini sulle testimonianze iconografiche e artistiche, saggi dei piùquotati studiosi di Ovidio, sempre impegnati in un confronto aperto con il mondo moderno. Il catalogo, che documenta questo importante lavoro collettivo, è pubblicato da Arte,m, e raccoglie più di 200 opere: gemme, statue, affreschi pompeiani, bronzetti, quadri, rilievi, provenienti da epoche, ambiti culturali, e collezioni diverse.
Non stupisce l’inesauribile scambio tra testo poetico e manufatto artistico in riferimento al mito classico: la mitologia ci presenta un repertorio aperto di racconti o frammenti di racconti e di immagini, che l’artista di epoca in epoca riattiva in nuove forme espressive. Il mito si presta fin dalle sue origini non solo all’espressione poetico-letteraria, ma anche a quella figurativa e i suoi registri espressivi sono sia immagini che parole, spesso collocati in un rapporto vicendevole di scambio: il repertorio artistico di un pittore o di uno scultore accoglie versioni mitografiche presenti nella tradizione letteraria, e, di converso, i testi poetici subiscono suggestioni di temi iconografici, concepiti inizialmente come autonomi e originali soggetti di pittura o di scultura.
L’opera ovidiana si colloca dentro questo orizzonte, e ne mette a frutto i meccanismi di selezione, reinterpretazione e riuso, ben documentati dalla mostra che propone e sollecita il rimando continuo tra testi, opere, artisti ed epoche diverse: uno spettacolare gioco di specchi che incanta e provoca il visitatore.
Affresco con pittura di giardino fine del I secolo a.C.- prima metà del I secolo d.C. (III stile) intonaco dipinto
Le prime sale sono precedute da un’installazione dell’artista Joseph Kosuth, che ha riportato sulle pareti frasi e parole ovidiane, spesso accompagnate da traduzioni in varie lingue (un caso di metamorfosi anche questo…), e da una scelta di codici e incunaboli. La prima parte della mostra èdedicata al tema dell’erotismo ovidiano (che si rivolge a uomini e donne, senza distinzioni di sesso) e al contrasto con Augusto, probabilmente alimentato anche dall’evidente opposizione ai severi principi di morigeratezza imposti dal principe. L’intero piano superiore della mostra è dedicato alle Metamorfosi e alle vittime di amori infelici, trasformate pietosamente in ‘altro’: Adone in fiore, Arianna in costellazione, Narciso anch’egli in fiore, Piramo e Tisbe in albero di gelso, e così via, in una straordinaria sfilata di storie e immagini.
Sembra mancare nelle Metamorfosi un centro narrativo: eppure, il tema dell’amore, che la mostra colloca in primo piano, mi sembra possa assolvere questa funzione: non Eros come figlio alato d’Afrodite ma come originaria energia, una sorta di motore in grado di confondere incessantemente ogni cosa una nell’altra, e di creare un mondo in cui animali, piante, pietre non semplicemente alludono agli uomini, ma sono essi stessi esseri umani. Ovidio ci aiuta a leggere il mondo come un insieme di eventi: le cose non ‘sono’, ma ‘accadono’, e la migliore grammatica per pensare e descrivere la realtà non è quella della permanenza, delle cose sistemate in un elenco, in un catalogo, ma è quella del cambiamento. Il sasso più solido, alla luce di quello che stiamo imparando dalla chimica, dalla fisica, dalla mineralogia, è in realtà un interagire momentaneo di forze, un processo che per un breve istante riesce a mantenersi in equilibrio simile a se stesso, prima di disgregarsi di nuovo in polvere. La fantasia di Ovidio ci aiuta a entrare in questo mondo di incessabili mutamenti, e a coglierne, o almeno intuirne, la straordinaria bellezza.
Tra le opere e i generi che hanno tratto ispirazione da Ovidio va senz’altro collocato il teatro musicale: la mostra non entra in questa dimensione del testo ovidiano, ma vi supplisce un libro di Paolo Isotta, recentemente pubblicato da Marsilio: La dotta lira. Ovidio e la musica. Il teatro musicale nasce nel nome di Ovidio, e per cinque secoli opere, drammi musicali, cantate, sinfonie e concerti traggono alimento dalla poesia ovidiana, dagli indimenticabili ritratti di donne abbandonate cantate nelle Metamorfosi e nelle Eroidi, dalle favole del calendario pagano oggetto dei Fasti. Da Poliziano a Strauss, passando per Monteverdi, Cavalli, Scarlatti, Bach, Händel, Pergolesi, Porpora, Haydn, Cherubini, Berlioz, Liszt, Massenet…il libro di Isotta racconta il mito della metamorfosi della musica., affrontando il tema in modo sintetico e comparativo, come si fa abitualmente nella storia dell’arte e della letteratura, ma non in quella della musica.
La mostra ovidiana si chiude con il doloroso, inevitabile riferimento al tema dell’esilio a cui fu condannato Ovidio: il racconto non procede più per immagini, ma è affidato alla recitazione di un attore - il bravissimo Sebastiano Lo Monaco - che legge versi tratti dalle Tristezze.
Eppure anche l’esilio di Ovidio ha segnato l’immaginario contemporaneo: ne danno testimonianza tanti poeti che nel Novecento assumono Ovidio non come ‘modello’, ma come destinatario del loro fare poetico, intrattenendo con lui un dialogo che attraversa, indenne, il tempo, le contingenze storiche, gli schemi mentali, espressi in lingue e culture diverse. Si delinea in questi termini un’idea e una pratica della ricezione ovidiana come ‘conversazione’, un contatto tra universi artistici lontani, che non si limita al giudizio critico ma è piuttosto un segno di intesa, di comprensione reciproca e profonda. In riferimento a un punto nevralgico della condizione dell’esule - la perdita, l’esilio dalla propria lingua prima ancora che dalla terra di origine -, Derek Walcott, il poeta caraibico insignito nel 1992 del premio Nobel per la Letteratura, in alcune sue raccolte di versi (Hotel Normandie Pool del 1981 e Midsummer del 1984) dialoga con il fantasma di Ovidio, chiedendosi, e chiedendogli, se è corretto usare l’inglese per un poeta caraibico, se scrivere in inglese non significa forse di per sé militare nei ranghi della Regina: “No language is neutral”.
Un altro poeta che trova ispirazione nell’Ovidio esule è Joseph Brodskij, anch’egli insignito del premio Nobel, nel 1987. Condannato nel 1964 al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo (5 anni di lavori forzati nel distretto di Konoš), Brodskij si identifica con l’Ovidio dell’esilio (“as if Ovid is alive”) e, definendosi abitante della «Scizia settentrionale», più di una volta scrive di ritenere Ovidio, «sbattuto fuori da Roma dall’amato Augusto di Orazio», il più grande tra i poeti latini.
Ovidio è peraltro molto presente sia nella poesia di Anna Achmatova, sia in quella di Osip Mandel’štam, che addirittura ha ripreso da Ovidio per una sua raccolta il titolo Tristia (“Io so la scienza dei commiati, appresa/ fra lamenti notturni e chiome sciolte”). In un’opera intitolata Otryvok (“Frammento”), datata 1964-1965 e scritta a Norenskaja durante il confino, Brodskij propone un confronto tra la sua situazione personale e quella di Ovidio: ambedue sono soggetti a un provvedimento che li condanna all’isolamento forzato; ambedue non sono esiliati nel senso stretto del termine. Nella sua Nobel Lecture il poeta russo disse che se l’arte insegna qualcosa (all’artista, in primo luogo) questa è l’interiorità della condizione umana. Essendo la più antica e la più letterale forma di un gesto personale, l’arte promuove in un uomo - che ne sia o meno consapevole - il senso della sua unicità, individualità, separatezza, così trasformandolo da un animale sociale in un autonomo “Io”. Il poeta così proseguiva: “Molte cose possono essere condivise: un letto, un pezzo di pane, convinzioni, un’amante…ma non una poesia, ad es., di Rainer Maria Rilke. Un’opera d’arte, di letteratura soprattutto, e una poesia in particolare, intrattiene con un uomo un rapporto tête-à-tête, entrando con lui in una relazione diretta, libera da ogni mediazione”.
Carlo Saraceni (Venezia 1580 circa - 1620) Caduta di Icaro
Proprio questo rapporto ‘personale’, libero da mediazioni, costituisce l’aspetto a mio parere piùinteressante della ricezione moderna della poesia ovidiana: il suo successo probabilmente deriva, oltre che dalla bellezza e forza dei suoi versi, anche dal fatto che Ovidio, a differenza di Cicerone, non dàuna risposta politica al suo esilio, e neanche filosofica, come fa Seneca, ma ci ha lasciato una risposta esistenziale, basata sulla libertà interiore del poeta:
“Non voglio discutere ogni singolo caso, ma di non mortale, noi, nulla
conserviamo: solo i tesori del cuore e dell’intelligenza.
Io, per esempio, non ho piùpatria; non ho voi, non ho casa;
m’hanno tolto tutto, tutto quanto si poteva.
Ebbene, ho il mio talento, qui, con me. Un caro appoggio.
Non ha avuto giurisdizione in questa sfera, Cesare, nessuna.
Faccia finire, chi vuole, la mia vita con spada di ferocia.
Io saròspento, ma svetteràla mia fama, a me superstite;
e fino a quando dai suoi colli Roma vedrà
tutto il pianeta inginocchiato, saròletto, io”.
(Tristezze, III 7, vv. 43-52; trad. di E. Savino)
Ovidio non si appella al diritto, non si presenta nelle vesti di un cittadino offeso davanti alla legge, ma si appella alla sua particolare identità di poeta, e ci dice che il mondo della poesia, e dell’arte, è una realtà autonoma, un dominio spirituale, in cui i decreti del potere terreno non sono validi: sarà il giudizio dei posteri, non l’arbitraria sentenza di un monarca, a determinare il giudizio sulla sua poesia. Mi sembra che abbia avuto ragione.