SCIENZA E RICERCA

L'elettronica si scopre "green", ma i rifiuti restano

Tecnologia sempre più all’avanguardia e in continuo sviluppo, soprattutto quando si parla di dispositivi mobili. Prendiamo i cellulari: ogni due o tre anni si tende a cambiarli per la presenza sul mercato di nuovi modelli. E si buttano i vecchi. Proprio il problema dello smaltimento dei rifiuti e, al tempo stesso, delle risorse utilizzate per realizzare questo tipo di prodotti costituisce il rovescio della medaglia.

Per questo, si inizia a considerare la possibilità di utilizzare nei dispositivi elettronici materiali biodegradabili. In uno studio pubblicato recentemente su Applied Physics Letters, ad esempio, un gruppo di ricercatori statunitensi parla di transistor a film sottili biodegradabili a partire da substrati derivati dal legno, composti da nanofibre di cellulosa su cui sono state applicate nanomembrane di silicio monocristallino. È questa dunque, sull’esempio degli americani, la strada da percorrere? E l’elettronica organica, da loro utilizzata, può venire in aiuto? 

Gaudenzio Meneghesso, docente di microelettronica all’università di Padova, risponde con dei numeri. “Un computer portatile – osserva – pesa sui due chili. Il materiale elettronico incide per circa 50 grammi, se non meno. Gli altri 1.950 grammi sono copertura, tasti, display, connessioni elettriche. Solo se si riusciranno a realizzare anche questi elementi, e non solo le componenti elettroniche, con materiale biodegradabile si potrà dire di aver fatto un primo passo verso la soluzione del problema dello smaltimento dei rifiuti”. Se si pensa ad altri tipi di utilizzo però, come nel caso di sensori, il discorso cambia. “Si immagini – spiega Meneghesso – di voler rilevare il grado di inquinamento cittadino. Oggi si costruisce una centralina all’interno della quale vengono collocati i sensori, limitando tuttavia la rilevazione a quel punto della città. Se invece potessimo distribuire tanti sensori biodegradabili, quasi come una pioggia di coriandoli, potremmo ottenere informazioni estese a tutta la città”. E senza alcun impatto sull’ambiente, dato che dopo qualche tempo i sensori scomparirebbero, proprio perché biodegradabili.  

In realtà, secondo il docente, la biodegradabilità non è il maggior vantaggio dell’elettronica organica. Flessibilità e costi di produzione contenuti, piuttosto, sono da considerarsi le caratteristiche principali, pur in presenza di basse prestazioni. “Quando si parla di elettronica organica è necessario cambiare prospettiva rispetto alla tendenza degli ultimi 30-40 anni. Negli ultimi decenni l’obiettivo è stato quello di realizzare dispositivi elettronici sempre più performanti e di piccole dimensioni. Ma non sempre c’è la necessità di un cervello elettronico che computi miliardi di operazione al secondo. A volte serve piuttosto flessibilità, anche se magari le prestazioni non sono così elevate”. E l’elettronica organica, che utilizza al posto del silicio polimeri conduttori o piccole molecole che hanno come elemento base il carbonio, offre questa flessibilità, sia in termini di materiali che di applicazioni. 

Si pensi al settore biomedicale ad esempio. Un “tatuaggio elettronico” da applicare sulla pelle potrebbe sostituire gli attuali dispositivi per eseguire l’elettrocardiogramma dinamico di Holter. Potrebbe autoalimentarsi, trasmettere le informazioni in maniera wireless a uno smartphone ed essere facilmente rimosso o dissolversi se biodegradabile dopo le 24-48 ore. O ancora, gastroscopie ed endoscopie potrebbero essere eseguite in modo non invasivo attraverso piccoli dispositivi elettronici organici e biodegradabili da ingerire. Ma le possibili applicazioni sono anche molte altre, dai pannelli fotovoltaici alla domotica. La possibilità di ottenere dispositivi elettronici su substrati flessibili, della consistenza della carta di alluminio per alimenti per intenderci, permette ad esempio di realizzare celle fotovoltaiche a film sottile e flessibile, anziché pannelli rigidi in silicio, che possono essere integrate nelle strutture architettoniche, impiegate nei vetri degli edifici e anche nel campo dei tessuti (tende per esterni, tettoie). Si tratta di un mercato ancora di nicchia, ma dalle evidenti potenzialità. Svariati i possibili impieghi dell’elettronica organica anche all’interno delle abitazioni. Per esempio, temperatura ed umidità potrebbero essere rilevati attraverso dei circuiti elettronici posti all’interno della carta da parati o delle vernici per le pareti. E a un costo molto più basso delle vernici stesse. 

Quando si tratta invece di computer portatili o smartphone, Meneghesso fa un altro tipo di considerazioni. “In questi casi, l’elettronica organica non permette di realizzare dispositivi tanto piccoli, ottimizzati e veloci come l’elettronica inorganica tradizionale basata sul silicio consente di fare. Ci si può limitare piuttosto al suo utilizzo in alcune parti, come il display”. Ed è quello che ha fatto la Samsung con gli smartphone di ultima generazione, i Galaxy S6, che possiedono schermi super Amoled (Active Matrix Organic Light Emitting Diode, diodo organico a emissione di luce a matrice attiva). L’utilizzo di materiale “organico” permette infatti di ottenere una resa ottica molto superiore rispetto ai cellulari tradizionali.  E se l’azienda è riuscita a piazzare sul mercato il nuovo prodotto, in parte deve ringraziare anche Padova. Già, perché con l’Universal Display Corporation, l’azienda che fornisce i display “oled” (a led organici) alla Samsung, ha collaborato il gruppo di ricerca di Meneghesso attivo nel laboratorio M&OST (Molecular and Organic Semiconductor Technology), in particolare Andrea Cester e Nicola Wrachien che da tempo si occupano di elettronica organica. 

Monica Panetto


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