SOCIETÀ
Colletta 2.0, si cambia

Foto: Album / Xavier M. Mir / Prisma / contrasto
C’erano una volta le sottoscrizioni pubbliche lanciate magari sul giornale, oggi invece c’è il crowdfunding su internet. Tutto uguale e tutto diverso. L’idea di fondo è raccogliere denaro chiedendo alla gente di versare quel che può, siano pochi spiccioli o somme importanti. Si può raccogliere denaro per molti motivi, per beneficenza o per finanziare un progetto, per rendere possibile un’inchiesta o avviare un’impresa. Si usava farlo dopo eventi eccezionali o per grandi progetti di solidarietà, ora è diventato – grazie alla rete – uno dei modi possibili per trovare ordinariamente sostegno alle proprie idee. La prassi si è diffusa grazie al web 2.0, che sta sempre più proponendo il modello bottom-up per ogni aspetto della vita sociale: nascono in continuazione piattaforme (ognuna con proprie regole e tutele) in cui proporre i propri progetti, e attraverso cui raccogliere i fondi necessari – che si tratti di attività creative, scientifiche o commerciali.
Di crowdfunding si parla molto anche in Italia, e se ne parla a ragione poiché il recente Dl 179/2012 (il cosiddetto decreto sviluppo 2.0 ), ormai convertito in legge, disciplina l’utilizzo di “portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative”, dove per portale si intende una “piattaforma on line che abbia come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio”. Gli operatori del settore salutano l’iniziativa in modo ambivalente: da un lato questa scelta pone l’Italia all’avanguardia a livello europeo e globale (accanto agli Stati Uniti, che ad aprile 2012 avevano approvato il Jobs act e reso legale il crowdfunding per le aziende), ma dall’altra parte ci si domanda perché comprimere le potenzialità di questo nuovo strumento lasciandone fuori le piccole e medie imprese. Il decreto prevede infatti la possibilità di questo tipo di finanziamento per le start-up a vocazione sociale o quelle innovative: aziende giovani (quattro anni al massimo), che non distribuiscano utili, abbiano sede e interessi in Italia, e siano fortemente orientate alla ricerca e alla tecnologia, nei loro prodotti ma anche nella quota di spesa destinata a ricerca e sviluppo o nella percentuale di dipendenti con dottorato o altre esperienze di ricerca.
La legge segna quindi il passaggio dal crowdfunding episodico e solidale alla sua versione strutturale, basandosi sulla formula equity-based, ovvero con un previsto ritorno economico. A gestire i portali di raccolta fondi saranno autorizzati solo banche e imprese di investimento, nonché “soggetti iscritti in un apposito registro tenuto dalla Consob”, che è anche tenuta a emettere un regolamento che disciplini la condotta nel rapporto con gli investitori. Il controllo di una commissione nazionale sarà – si dice – uno dei primi casi al mondo, dal momento che altrove si raccoglie denaro solo con il “controllo sociale”.
La via italiana all’impresa 2.0 – oltre al dichiarato obiettivo di “rendere più ospitale l’Italia per le start up”, parole del ministro Passera – è forse anche un tentativo di rispondere ai dubbi prevedibili degli investitori. Di fronte alla richiesta di denaro, il singolo si chiede inevitabilmente che fine farà il suo investimento, come verrà impiegato, vorrà sapere a che punto è il progetto che ha contribuito a finanziare, e si chiede quale sia la serietà di chi chiede i soldi. Questioni di fiducia, insomma. E al tempo di internet non è cosa da poco. La fiducia, infatti, è al centro anche dell’indagine conoscitiva avviata da Consob nei mesi scorsi e conclusasi l’8 febbraio. I risultati saranno presentati all’interno della bozza di regolamento che verrà pubblicata nelle prossime settimane (il termine previsto è il 19 marzo). Le domande, rivolte a tutti gli attori coinvolti, riguardavano la propensione al rischio e all’investimento (“quale somma sareste disposti a investire?”), i timori connessi alla transazione (rischio di truffa, perdita del capitale, conflitti di interessi, indebito utilizzo dei dati personali, mancata distribuzione degli utili), gli aspetti rilevanti per la scelta dell’investimento (progetto imprenditoriale, curriculum e localizzazione dell’azienda, eventuale quota sottoscritta da investitori professionali).
In attesa di capire quale interesse incontrerà questo “crowdfunding istituzionale”, resta una nodo da sciogliere: che fine faranno le piattaforme italiane attualmente esistenti e i progetti attualmente in fase di raccolta fondi?
Cristina Gottardi