SOCIETÀ
Competitività: vanno male anche le regioni del Nord

Foto: Reuters/Paolo Bona
Il rapporto sulla competitività delle regioni, recentemente pubblicato dalla Commissione europea, non contiene notizie positive per l’Italia. In parte c’era da aspettarselo viste le condizioni macroeconomiche del paese, in parte no. Almeno per quanto riguarda il Nord dell’Italia (in particolare la Lombardia) che registra un significativo arretramento in termini di competitività rispetto alle rilevazioni procedenti (se a qualcuno fosse venuta la curiosità, i dati per il Sud sono impietosi). Un risultato che naturalmente preoccupa e non poco. A maggior ragione per il fatto che il rapporto si basa su dati 2010,
Proprio per questa ragione è utile entrare nello specifico del rapporto per cercare di analizzare quali sono gli elementi che stanno danneggiando la competitività delle regioni settentrionali. Il rapporto è costituto da un indice sintetico composto da indici più puntuali che misurano un insieme articolato di variabili: dai trasporti, alla salute, dalla qualità delle istituzioni al mercato del lavoro e altro. Solo poche voci sono in positivo come le infrastrutture (autostrade, ferrovie, voli aerei) dove la Lombardia (44° posto su 262 regioni) è al livello della regione di Amburgo (40° posto), il Piemonte (70°) è al pari del Lussemburgo (69°), il Veneto (80°) confrontabile con l’Alta Normandia (81°); la sanità: Trento (11°) è come Londra (9°), la Lombardia (30°) come Stoccarda (34°), il Veneto (44°) come Karlsruhe (48°); e paradossalmente gli indicatori economici (Pil pro capite), con la Lombardia (29°), Emilia Romagna (53°), Piemonte (63°) e Veneto (66°).
A fronte di questi aspetti positivi c’è ne sono molti nei quali siamo in difficoltà: qualità istituzionale, stabilità macroeconomica, formazione, efficienza del mercato del lavoro (con la sola eccezione di Bolzano, Trento e Val D’Aosta), produzione di innovazione tecnologica (siamo a metà classifica), banda larga e uso delle nuove tecnologie (quasi ultimi in Europa). Un dato che preoccupa forse più degli altri riguarda il capitale umano (numero di laureati) dove arranchiamo.
E’ utile precisare che gli indici utilizzati nel rapporto sono prettamente di natura quantitativa e richiederebbero un maggior approfondimento qualitativo. Un esempio ne sono le infrastrutture, magari in termini di vicinanza agli snodi stradali e ferroviari siamo vicini al resto d’Europa ma è altrettanto evidente che la qualità di questi servizi è ben diversa rispetto agli altri paesi. La metropolitana di Milano per quanto efficiente non è quella di Londra e di Parigi. Il treno regionale affollato di pendolari e perennemente in ritardo fa parte della nostra esperienza quotidiana ma non ha molti equivalenti in Europa. D’altro canto è vero che la percezione delle qualità istituzionale è bassa, ma mai come in Italia si registra una distanza a priori verso le istituzioni.
Molti commentatori hanno visto nei risultati di questo rapporto una ulteriore dimostrazione delle difficoltà che il nostro paese sta attraversando, soprattutto in quelle regioni che hanno trainato finora lo sviluppo economico. Per altri è stata la conferma che non si può uscire dalla crisi attraverso l’attivismo delle singole regioni ma è necessario riportare il dibattito all’interno di un quadro nazionale.
L’agenda delle riforme, da quelle chieste dall’Europa a quelle proposte da molti commentatori qualificati, è ferma ormai da molto tempo e non sembra, almeno alle condizioni date, essere oggetto di particolari accelerazioni.
Come orientarsi? Che cosa fare per tornare competitivi? Quando mancano prospettive chiare per il futuro forse ha senso cercare nel nostro passato qualche risposta. Soprattutto tra chi ha la capacità dello sguardo lungo capace di andare oltre i singoli accadimenti. Carlo Maria Cipolla nell’introduzione al suo libro: Storia facile dell'economia italiana dal Medioevo a oggi esprimeva già negli anni Novanta con molta chiarezza che: “Noi siamo un popolo che non può permettersi di fermarsi, di accontentarsi di facili successi. Dobbiamo sempre inventare cose nuove che piacciono e che quindi si vendano fuori dei confini”.L’Italia non ha particolari risorse naturali (materie prime, gas, petrolio) sulle quali contare. Per prosperare deve necessariamente specializzarsi nella trasformazione manifatturiera e nei commerci. Quando lo abbiamo fatto, sosteneva Cipolla, siamo stati protagonisti di uno straordinario sviluppo economico e sociale.
Forse è da qui che dovremmo partire per tornare competitivi, rimettendo al centro di una strategia nazionale quella manifattura che è stato a lungo uno degli elementi qualificanti del nostro modello di sviluppo. A maggiore ragione, oggi, in un momento storico dove a livello internazionale sta crescendo rapidamente la domanda di prodotti personalizzati e di qualità, tradizionali punti di forza del nostro sistema industriale.
Marco Bettiol