SOCIETÀ

Dalle province alle reti di città

Il 28 settembre ci saranno le prossime elezioni provinciali. Sarà però un voto molto particolare: per la prima volta alle urne non si recheranno tutti i cittadini maggiorenni, ma solo ed esclusivamente i sindaci e i consiglieri comunali. Inoltre non varrà più il principio “una testa, un voto”: verrà infatti inaugurato un sistema di ponderazione, che terrà conto della popolosità di ciascun comune. Si tratta di una delle prime applicazioni della cosiddetta Legge Delrio (la 56 del 2014), nata sostanzialmente per onorare la promessa di togliere di mezzo le odiate province, e che ha decretato anche l’istituzione delle città metropolitane (sebbene queste fossero già state introdotte nella Costituzione dalla riforma del 2003).

Una riforma che certamente incide nelle nostre istituzioni e che ha già ricevuto, oltre a qualche apprezzamento, anche diverse critiche. Cosa dobbiamo aspettarci? Ne parliamo con Patrizia Messina, docente e studiosa dei meccanismi di governo delle reti e nello sviluppo locale e curatrice, assieme a Silvia Bolgherini, del recente Oltre le province. Enti intermedi in Italia e in Europa (Padova University Press 2014). “Con la riforma le province diventano enti di secondo livello, i cui rappresentanti non sono eletti dai cittadini ma dai comuni – spiega la studiosa –. Non si tratta necessariamente di una cosa sbagliata, a patto però di superare l’attuale logica del decentramento e di andare verso una prospettiva funzionale”.

Potrebbe spiegarci? “Le regioni ad esempio rispondono ancora a una logica di tipo gerarchico-piramidale. Noi invece oggi abbiamo bisogno di una logica funzionale che è una cosa completamente diversa, basata sui servizi e non sui confini”. La riforma va nella direzione giusta? “Diciamo che può avere un senso, se le province diventano lo spazio per il coordinamento di un’area, un po’ come accade oggi con le reti di comuni. La sfida vera è passare da una costruzione piramidale a quella di rete, da quella giuridica all’applicazione del concetto di governance”.

I rappresentanti delle nuove province e delle città metropolitane non vengono però eletti direttamente dal popolo. Questo non costituisce un insanabile deficit di democrazia? “Non bisogna confondere i livelli. Qui l’obiettivo non può essere solo la democraticità, che trova espressione ad altri livelli e che spesso in queste sedi rimane meramente formale. L’obiettivo deve essere lo sviluppo strategico, altrimenti la riforma non serve e manteniamo la provincia come è stata fino ad oggi: un ente sostanzialmente inutile, che si occupa di cose – come turismo e formazione – che possono benissimo essere fatte dal comune o dalla regione”.

Le nuove province e le città metropolitane possono essere lo spazio per il coordinamento tra i comuni? “Il mio dubbio è che questo venga fatto partendo dai vecchi confini provinciali, che oggi non hanno più senso. Poi tutto dipenderà, come sempre, dagli attori, dalla loro capacità di attrezzarsi culturalmente per scelte e operazioni complesse come quelle che li attendono”. Ci sono poi le città metropolitane; la riforma ne prevede 10: Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino, Reggio Calabria, Roma e Venezia. “Il problema è che si pretende di attivarle a partire dai confini provinciali. C’è però una bella differenza tra Roma e Venezia! in Veneto, per essere efficace, l’area metropolitana dovrebbe comprendere perlomeno Padova e Treviso. Con l’ultima riforma invece si continua a preferire i confini alle funzioni; si impone poi un modello monocentrico, quando invece c’è bisogno di policentrismo”.

Il tema è stato anche al centro del convegno Costruire reti di città. Il governo di area vasta oltre le province, che si è tenuto il 18 settembre a Padova e che ha riportato anche alcune interessanti esperienze europee, come quella del Brabante Settentrionale e o del cosiddetto Randstad Holland, in cui i compiti sono effettivamente divisi tra le città che compongono il sistema (le funzioni amministrative all’Aia, le attività finanziarie ad Amsterdam, il porto e l’industria pesante a Rotterdam...). “Lì abbiamo effettivamente una serie di città in rete, che cercano collegamenti tra di loro e si coordinano per la gestione di una serie di servizi”, conferma Messina. In Italia però l’esigenza di collaborare insieme per lo sviluppo del territorio riuscirà a vincere il nostro storico campanilismo?

In tutto questo appare anche evidente la crisi dello stato come soggetto regolatore. “Purtroppo la visione gerarchica e giuridica è ancora fortemente radicata, e questa a mio parere è anche delle chiavi della nostra attuale difficoltà ad affrontare la crisi attuale. Oggi il problema della regolazione si è trasferito a livello globale, in cui però non esiste ancora una forma di governo internazionale in grado di risolverlo”. Intanto emergono le aree urbane come protagoniste della globalizzazione: “È lì che oggi si creano il valore e lo sviluppo. Gli stati nazionali oggi sono troppo piccoli per governare il sistema globale e troppo grandi per governare le città”.

Daniele Mont D’Arpizio

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