SOCIETÀ
Il giornalismo affascina, i giornalisti scompaiono

C’è un futuro per il giornalismo? Forse sì, più difficile dire se ci sia un futuro per i giornalisti. A Perugia, dove si è svolta dal 24 al 28 aprile la settima edizione del Festival internazionale del giornalismo c’erano le icone della stampa italiana (Beppe Severgnini, Vittorio Zucconi, Bernardo Valli, Marco Travaglio, Gian Antonio Stella) che firmavano autografi e dispensavano consigli alle centinaia di giovani che affollano le sessioni di lavoro. Raramente si è visto un entusiasmo simile per una professione che attira molti e recluta pochissimi, anzi riduce drasticamente i propri organici.
A Perugia si incontravano decine e decine di persone come Andrea Marinelli, collaboratore dagli Stati Uniti di vari giornali italiani, che ha scritto un libro, L’ospite, sulla sua avventura: raccontare la campagna elettorale del 2012 senza un soldo in tasca. Se l’è pubblicato da solo su Amazon e ora ha un altro progetto di libro: per realizzarlo, ha lanciato un secondo “crowdfunding”, cioè una richiesta di piccole sovvenzioni ai lettori per poter partire.
Nella stessa sala con Marinelli c’era anche Lisa Biagiotti (che non è parente della stilista italiana), autrice di un documentario di eccezionale qualità, Deep South, sull’Aids nel Sud degli Stati Uniti. Lisa ha vinto una quantità di premi (tra l’altro un Robert F. Kennedy Journalism Award per War in Congo e una borsa Fulbright per una ricerca sull'immigrazione islamica in Italia) ma non è riuscita a trovare un produttore o un distributore per il suo film, finanziato per metà con il contributo di una fondazione e per l’altra metà con i propri risparmi.
Marinelli e Biagiotti sono due tra i mille esempi che si potrebbero fare di giovani di talento che non un tempo sarebbero entrati facilmente al Corriere della sera o alla CBS e oggi invece non riescono a trovare un lavoro stabile. La ragione era intuibile nella relazione di Emily Bell del Tow Center for Digital Journalism, co-autrice del rapporto “Il giornalismo post-industriale”: in sostanza la raccolta e pubblicazione di notizie non è più un’industria organizzata come la Fiat o la General Motors. In un famoso libro degli anni Settanta, il sociologo Herbert Gans paragonò il funzionamento delle redazioni a una catena di montaggio, in cui reporter, capiredattori, grafici e tipografi avevano compiti ben precisi, tutti sincronizzati per ottenere un prodotto finale nel tempo voluto.
Oggi, questo aspetto delle organizzazioni giornalistiche tradizionali sopravvive ma a fianco di una galassia di piattaforme che ospitano notizie, commenti, umori del cittadino della strada. C’è stato un processo di disintermediazione fra i produttori di notizie (in genere le istituzioni) e i fruitori, i cittadini che leggono, ascoltano o guardano un telegiornale. Questo processo ha provocato, come spiega Mark Deuze dell’università dell’Indiana, “uno spostamento di potere dai professionisti creatori di contenuti verso gli utilizzatori e i proprietari” delle piattaforme su cui i contenuti vengono fruiti. Il mondo dei media assomiglia sempre più a una clessidra, in cui c’è un gran numero di produttori (la parte alta della clessidra) e un gran numero di utenti (la parte bassa) con in mezzo un numero sempre minore di “mediatori”. I blog e i social network permettono di scavalcare i giornalisti, che diventano sempre meno necessari: al posto dell’inviato di guerra giornali e televisioni possono ora usare i tweets dei protagonisti o i filmati girati con un telefonino. (1/continua)
Fabrizio Tonello