SOCIETÀ
La Gran Bretagna se ne va, in nome della democrazia

Foto: Reuters//Luke Macgregor
Il 23 giugno si voterà in Gran Bretagna se restare nell’Unione Europea a cui Londra aderì nel 1973 oppure uscirne. Poche ore fa, il primo ministro inglese David Cameron ha twittato: “Il 23 giugno avrete la parola sul tema della Gran Bretagna e dell’Europa. Ecco perché noi siamo più forti, più sicuri e più prosperi in Europa”. Nonostante la campagna del governo a favore della permanenza nell’Unione, il risultato del referendum è molto incerto: la maggior parte della stampa e molti politici conservatori di peso, come il sindaco di Londra Boris Johnson, sono favorevoli all’uscita.
Facciamo un passo indietro: a Roma, nel 1957, Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo avevano firmato il trattato che istituiva la Comunità, frutto di un lungo processo iniziato nel cuore stesso della seconda guerra mondiale con le riflessioni di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschman in Italia, Jean Monnet e Robert Schuman in Francia.
Le catastrofiche perdite umane e le distruzioni provocate da due guerre mondiali nell’arco di appena 30 anni rendevano evidente la necessità di una qualche forma di unione europea. Il modo di arrivarci, però, era complicato dalla divisione della Germania, dalle ambizioni della Francia e dall’incertezza della Gran Bretagna.
Nel 1945, “la Gran Bretagna godeva dell’autorità morale di essere la nazione che aveva diretto la lotta contro il fascismo (…) ma era diffidente verso gli schemi di integrazione europea” ha scritto lo storico della Johns Hopkins Mark Gilbert, recentemente ospite di un seminario a Padova. La ragione, ha spiegato Gilbert, è che “ogni paese ha dei tabù nella propria cultura politica e, nel caso della Gran Bretagna, questo tabù è la democrazia, rappresentata dalla sovranità del Parlamento. L’idea di cedere sovranità a entità non democraticamente responsabili è inaccettabile”.
Londra era favorevole già allora a un’Europa che fosse una semplice area di libero scambio, un progetto alternativo a quello di una federazione politica così come la immaginavano i padri fondatori della Comunità, in particolare Adenauer, Schuman e De Gasperi. Una posizione che i governi inglesi, sia conservatori che laburisti, hanno mantenuto con ammirevole coerenza, riuscendo di fatto a imporla alla UE. Oggi, l’Unione Europea ha 28 stati membri ma una geometria variabile: 17 si sono dotati di una moneta comune, l’euro, molti hanno aderito al trattato di Schengen sulla libera circolazione, altri no. L’eterogeneità delle strutture economiche e delle tradizioni politiche rende oggi impensabile una vera unione federale sul modello degli Stati Uniti, né si vedono oggi forze politiche o movimenti sociali che vogliano spingere in questa direzione: c’è al contrario un virulento ritorno del nazionalismo e della xenofobia, in particolare nei paesi dell’Est.
Mai come oggi Parigi sembra lontana. Non la Parigi del 2016, raggiungibile in un paio d’ore con un volo low cost sia da Stoccolma che da Atene, ma la Parigi del 21 ottobre 1972, quando la Comunità Europea si presentò al mondo come un’organizzazione piena di fiducia in se stessa, pronta a trovare un approccio unitario e coerente ai problemi del pianeta. I leader di nove paesi dichiararono che l’Europa “dev’essere in grado di far sentire la sua voce nel mondo e di dare un contributo originale proporzionato alle sue risorse umane, intellettuali e materiali”. Non solo: Francia, Italia, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna (che sarebbe ufficialmente entrata il 1° gennaio successivo) si impegnarono a difendere i principi fondamentali della democrazia, a creare una moneta comune e a “migliorare la qualità della vita, insieme al tenore di vita” dei cittadini europei. Il documento si concludeva con l’impegno a creare una “Unione Europea” entro il 1980.
In realtà, ci sarebbero voluti più di 20 anni per arrivare al trattato di Maastricht e all’Unione, mentre solo nel 2002 l’euro sarebbe entrato in circolazione, in 12 paesi e non in tutti. Dopo la vittoria dei laburisti nel 1997 sembrava che anche la Gran Bretagna dovesse aderire, ma Tony Blair su questo tema fu sconfitto dal suo Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown e la sterlina rimase la moneta nazionale.
Da un certo punto di vista, i momenti chiave nei rapporti tra la Gran Bretagna e il resto dell’Europa sono stati due: il governo Thatcher e l’euro. Margaret Thatcher iniziò la politica della “diversità” inglese con lo slogan “I want my money back”, cioè con la richiesta di sottrarsi alle regole del bilancio comunitario, strutturato in modo da favorire i paesi più poveri in nome della solidarietà. L’euro, con la sua difettosa concezione, ha rivelato i limiti e i pericoli dell’unione monetaria e delle politiche economiche decise a Bruxelles o a Berlino: a Londra chiaramente non si vuole accettare la sorte di Grecia, Spagna, Portogallo o Italia, dove i bilanci dello stato sono scritti sotto dettatura della Commissione europea e del Fondo Monetario.
Cosa cambierebbe un’eventuale vittoria dei “No” all’Europa? La Gran Bretagna ha circa il 50% del suo commercio con il resto dell’Unione e quindi dovrebbe probabilmente negoziare dei rapporti doganali il più possibile simili a quelli odierni. La sterlina e il ruolo della City come piazza finanziaria mondiale non verrebbero probabilmente toccati. E’ possibile che gli investimenti in Gran Bretagna, soffrano perché verrebbe meno un potente incentivo per le multinazionali, soprattutto quelle americane, desiderose di avere una base all’interno della UE. Un rapporto del centro studi Capital Economics sostiene che, complessivamente, l’impatto economico sarebbe limitato.
Quello simbolico, invece, sarebbe enorme. È la prima volta nella storia che un paese aderente alla UE discute se lasciare l’organizzazione, fino a ieri molto corteggiata dai paesi periferici: la Serbia, la Bosnia, la Macedonia, la Turchia e l’Ucraina vorrebbero aderire all’Unione, percepita come una garanzia di sicurezza e di benessere. L’uscita della Gran Bretagna, invece, potrebbe accelerare un processo centrifugo, in cui i paesi insofferenti dei “diktat” di Bruxelles, come l’Ungheria, potrebbero decidere di abbandonare l’Europa, magari cercando di mantenere limitati accordi economici. La crisi dell’euro, fin qui soltanto rinviata, potrebbe bruscamente potrebbe accelerarsi e nessuno è in grado di dire con quali esiti.
Fabrizio Tonello