SOCIETÀ
Informazione e pubblicità: il caso limite delle Corporation

Un lavoratore in pausa di fronte alla torre Burj Khalifa. Foto: Reuters/Mohammed Salem
Negli ultimi anni Dubai è divenuto un paese di prodigi e bizzarrie, come ad esempio il Burj Khalifa, la più alta struttura (829,8 metri) mai costruita dall’uomo. Un successo basato però sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri, che costituiscono oltre l’80% della popolazione. Provenienti soprattutto da India, Bangladesh, Pakistan e Filippine, questi nuovi schiavi vengono impiegati in particolare nell’edilizia e non godono pressoché di alcun diritto. I ritmi di lavoro sono inumani ed è proibito ogni movimento al di fuori degli accampamenti-ghetto nei quali vivono reclusi, mentre migliaia di loro rimangono ogni anno feriti o uccisi nel corso dei frequenti incidenti del lavoro. Infine, i sindacati sono proibiti e il controllo costante della polizia spegne sul nascere qualsiasi accenno di protesta.
Di loro e delle condizioni si sono occupati nel corso degli ultimi anni le agenzie per i diritti umani e i giornali di mezzo mondo, e da ultimo... la Coca Cola. Proprio la multinazionale di Atlanta infatti, leader mondiale nella produzione di bevande gassate, ha dedicato loro uno spot, pubblicato lo scorso maggio sul web. La clip all’inizio si presenta come un vero e proprio minidocumentario. I lavoratori raccontano di quanto sia duro vivere lontani dalla propria famiglia: molti vorrebbero chiamare più spesso i loro familiari, ma un minuto di telefonata costa ben 0,91 dollari. Davvero tanto per chi affronta una vita di privazioni per appena 5-6 dollari al giorno.
Cosa fa a questo punto la Corporation? Crea e installa cinque cabine telefoniche che funzionano a Coca Cola. Inserendo il tappo di una bottiglia infatti, al costo di mezzo dollaro, si ha diritto a una telefonata di 3 minuti. Il video segue la progettazione e la realizzazione delle cabine (apparentemente senza troppa attenzione alle norme di sicurezza). Sguardi increduli, poi incuriositi, infine felici degli immigrati. Tutti si mettono in fila per parlare per qualche minuto con le loro famiglie, “perché la felicità è una Coca Cola e una chiamata a casa”. Un mese dopo – questo però non si vede – l’esperimento finisce e le cabine vengono smantellate.
Lo spot nel momento cui scriviamo conta oltre 2 milioni di visualizzazioni e un gradimento del 95%. Nello stesso periodo sono stati pubblicati dall’azienda anche altri video su situazioni analoghe, rispettivamente a Singapore e Bangladesh sempre sul tema di situazioni inaspettate in cui gente povera può trovare un momento di ‘felicità’ (bevendo una Coca Cola, ovviamente). Il discreto successo dell’iniziativa non ha tuttavia evitato che intorno ad essa sorgesse una polemica. Semplice operazione commerciale, o denuncia?
È molto critico Nicholas McGeehan, ricercatore di Human Rights Watch per l’area del Golfo, che ha definito ‘odioso’ il video su Dubai. “Forse due secoli fa la Coca Cola non avrebbe ritenuto disdicevole l’utilizzo degli schiavi neri – ha detto McGeehan –, ritraendoli magari con lattine di bibita?”. Ma se è vero che l’operazione corrisponde a una specifica strategia commerciale – nella fattispecie quella di puntare i mercati dei paesi in via di sviluppo – è anche vero che essa porta anche alla luce le condizioni drammatiche di molti lavoratori, stimolando quindi la coscienza e il dibattito, con mezzi e una risonanza che difficilmente gli attivisti avrebbero eguagliato.
Gli spot, e il dibattito che hanno suscitato, sono però interessanti anche per un altro motivo: sono una finestra aperta sul tema, quanto mai attuale, dell'intrecciarsi di informazione, diritti e ruolo delle corporation con la loro capacità di sponsorizzazione.
Non è raro che le pubblicità – in particolare quelle più riuscite, dai tempi degli spot Benetton – non parlino tanto di prodotti, quando di valori e di storie. Non a caso proprio la Coca Cola ha “inventato” il Babbo Natale moderno (che veste gli stessi colori, guarda caso), e il moderno sviluppo della televisione, a cominciare da telefilm e show, sarebbe incomprensibile senza l’apporto dell’industria pubblicitaria. Le novità stanno però nei temi scelti e soprattutto nel linguaggio, vicino a quello giornalistico, in particolare nel genere del documentario.
Ma si tratta di informazione o di pubblicità? E soprattutto: informazioni e valori, anche di carattere sociale, possono passare attraverso la pubblicità? “Perché no?” risponde Raffaele Fiengo, firma storica del Corriere della sera e oggi docente di linguaggio giornalistico all’università di Padova. “Soprattutto oggi trovano spazio nell’advertising tanti contenuti di qualità che, anche per forma e linguaggio, potrebbero in diversi casi stare anche tra le notizie di un giornale”. In questo modo però non si rischia la confusione e, soprattutto lo snaturamento degli organi di informazione e del loro ruolo? “L’importante è evitare le contrapposizioni ideologiche. Penso che alla fine la differenza la facciano la trasparenza – con la separazione e la netta riconoscibilità dei contenuti sponsorizzati – e la professionalità del singolo”.
Da sempre quello del rapporto tra notizie e pubblicità, dovere, imparzialità e interessi economici, è uno dei temi che tengono banco nel dibattito sull’informazione. Soprattutto in un paese come l’Italia dove, spesso si lamenta, c’è una drammatica scarsità di editori “puri”, dediti cioè esclusivamente al business dell’informazione. “Il problema però c’è dappertutto, anche nei paesi anglosassoni, dove è nato il giornalismo moderno. Diversi studi dimostrano infatti che i giornali non sono mai stati completamente autonomi dal punto di vista economico. Anche nei periodi d’oro c’è sempre stato bisogno della pubblicità”. Ma allora è vero che dei media non ci si può fidare? “Non necessariamente. Negli Stati Uniti ad esempio si è reagito sviluppando la teoria del ‘muro’ tra Newsroom e Businessroom. I giornalisti sono sempre stati estremamente gelosi della loro autonomia e in certe testate addirittura non c’è un collegamento fisico tra la redazione e gli altri uffici. Anche lì però ultimamente questa visione viene messa sempre più in discussione, come dimostra anche l’ultimo rapporto strategico riservato del New York Times (in particolare p. 61, Ndr), forse addirittura collegato alla cacciata della direttrice Jill Abramson”.
Nella situazione attuale, sempre più ‘liquida’ e caratterizzata dalla sovrabbondanza di informazioni e di stimoli, la differenza è sempre più determinata dalla qualità: “Quella però può essere presente anche in spazi sponsorizzati, che una volta venivano considerati pubblicità. E non dimentichiamo che oggi la maggior parte dei laureati in corsi attinenti alla comunicazione trova lavoro soprattutto nelle aziende piuttosto che nei giornali. Può non piacere, ma penso che il dibattito vada aperto, piuttosto che negare la realtà”.
Il problema del rapporto tra informazione e Corporation insomma è all’ordine del giorno. Anche perché i giornali fino ad ora non hanno ancora trovato un modello economico sostenibile per il futuro, di fronte alla proliferazione di notizie disponibili gratuitamente in rete. Di fronte alla crisi dell’informazione, presto, per sapere cosa succede nel mondo, dovremo affidarci al Coca Cola Times, alla Amazon Gazette e al Sony Courier?
Daniele Mont D'Arpizio