SOCIETÀ

L'autorevolezza: come metterla in scena

“Allora, qual è l’ordine del giorno?”. La signora seduta di fianco potrebbe essere sulla cinquantina; con la sinistra scorre il programma, con la destra compulsa le ultime e-mail sul tablet. L’“ordine del giorno” altro non è che la scaletta della lezione del pomeriggio. Siamo al Cubo Rosso, centro di “formazione esperienziale” dove Fòrema, società che forma gli industriali padovani, ha organizzato un seminario sui generis per il pubblico che frequenta abitualmente queste aule: un notissimo attore, Ugo Pagliai, spiegherà a manager e imprenditori come si usa la voce in azienda in modo da renderla, spiega il dépliant, “capace di conquistare e di convincere”. L’evento attira una piccola folla di imprenditori desiderosi, forse, di un tono più autorevole, di un timbro più seducente: la sala del Cubo Rosso, arredata con cucina e frigorifero per i corsi “esperienziali” di matrice gastronomica, non ha un centimetro libero.

Mentre i finestroni a semicerchio, spalancati sulla zona industriale al tramonto, dischiudono scenari più adatti a un Cda che a una serata d’arte e didattica, i corsisti mormorano frasi d’ammirazione: sono tanti, i ricordi legati a uno dei volti teatrali più noti del Paese. A sentire i commenti del pubblico più âgé i personaggi rimasti nel cuore sono quelli degli sceneggiati tv anni Settanta, da Madame Bovary a L’amaro caso della Baronessa di Carini: ma qui l’attore è presentato in veste inedita, “allenatore di voci” di persone destinate a dirigere, ordinare, organizzare. Introdotto dal communication coach Matteo Rinaldi, il maestro dovrebbe seguire i cinque punti dell’“ordine del giorno”: intenzione, sorriso, tono di voce, ritmo, retorica. Ma appena sale sul piccolo palco, capiamo che ogni tentativo di ingabbiare l’artista in formule strutturate è destinato a fallire. Pagliai non è un economista né un guru del marketing: è un vecchio attore, vecchio nel senso più limpido e verace. Non è un fighetto à la page né un prodotto dei reality; non una star in declino disposta a denudarsi nella giungla pur di ritagliarsi una breve sui quotidiani, né un piacione ammiccante che si immedesima nel ruolo di intrattenitore alternando battute grossier e istrionici vocalizzi. Da lui è inimmaginabile una lezione-spettacolo alla Gassman (Vittorio, il suocero), in cui il mattatore si esibisca con godimento in mille siparietti dove prendono forma tipi umani da antropologia aziendale, con una sequela di improvvisazioni che, nell’evocare segretarie ruspanti o dirigenti barbosi, si traducono in virtuosismi sonori per dileggiare accenti dialettali o correggere intonazioni lamentose.

Pagliai è un signore del palco, abituato a insegnare semplicemente recitando gli autori che ama: e il suo rapporto con questo pubblico è quello di un gentiluomo cortese e un po’ intimidito, che, sentendosi ospite in un ambiente non suo, ci entra in punta di piedi, con un’umiltà e una discrezione inconcepibili per gli ipertatuati divetti del nulla. E allora il suo indottrinare la platea non può che avvenire in modo implicito, indiretto; nessuna lezione teorica, zero compiacimenti gigioneschi, ma l’insegnamento pratico che si trae ascoltandolo in un repertorio che, coerentemente, è quello di un attore romantico tradizionale: una pagina di Cechov sulla scoperta di Venezia, curiosamente piena di luce e gioia di vivere; liriche amorose di Neruda e García Lorca, in cui il materiale didattico sono i sussurri e gli sfumati; l’Infinito leopardiano, per il quale Pagliai azzarda un impossibile invito ai presenti a tentare un’interpretazione dignitosa; il monologo finale di Marlon Brando in Apocalypse Now, forse l’esecuzione più intensa, dove mezze tinte e silenzi sono finalmente al servizio di un brano, e di un linguaggio, che consentono il maggiore coinvolgimento emotivo di un pubblico sempre meno abituato alla poesia e sempre più a MasterChef. Nessuna concessione allo sberleffo, se si eccettua il momento più simpatico: quando una delle ragazze dell’organizzazione squarcia i mezzi toni attraversando la sala in tacchi a spillo, e Pagliai afferra al volo l’attimo per ironizzare, con garbo, sulla dolcezza tutta femminile di questo suono.

Quanto agli spettatori, sembrano consapevoli che ciò cui stanno assistendo non è tanto un evento formativo quanto l'occasione di ascoltare una voce di quelle in via di estinzione; facendosi venire una gran voglia di ascoltare la propria, di voce, e cercare di smussarne le peggiori asperità. Successo caldissimo di un pomeriggio di teatro, davanti a una platea che il mattino dopo, intervenendo alla riunione aziendale, tenterà qualche modulazione in più.

Martino Periti


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