SOCIETÀ
L’imperativo di De Benedetti: mettersi in gioco

Carlo De Benedetti. Foto di Massimo Pistore
Carlo De Benedetti, l’editore del gruppo Espresso, ha scritto un libro. O meglio, un pamphlet (Mettersi in gioco, Einaudi 2012) con il quale analizza mali e rimedi dell’Italia in crisi, allargando l’orizzonte all’analisi sociale, economica e politica del mondo globalizzato.
Quando incontra gli studenti dell’università di Padova, martedì 20 nell’Aula magna del Palazzo Bo, insieme al rettore, la prima cosa che vuole portare all’attenzione di chi lo ascolta è la mutata geografia economica del mondo, che vede il suo baricentro spostarsi sempre più da Occidente a Oriente. Il fatto che l’Europa, e al suo interno l’Italia, non costituiscano più il centro economico e culturale del globo, ma che gli equilibri si definiscano oggi anche fuori dal cosiddetto mondo occidentale, è per De Benedetti una rivoluzione irreversibile, di cui ciascuno deve prendere coscienza.
Il cambiamento non deve essere vissuto come necessariamente foriero di sventura: la presenza sul mercato dei Paesi emergenti, il cui costo del lavoro è irrisorio rispetto al nostro, ci ha permesso di calmierare l’inflazione per anni, la caduta del muro di Berlino ha portato all’ingresso in Europa di Paesi la cui nuova forma di governo, democratica, ha fatto sì che oggi abbiano un’economia florida più della Germania: è il caso, per esempio, della Polonia.
Non sono solo i Paesi e i loro governi a dover prendere atto della rivoluzione in corso, per definire nuove strategie, ma soprattutto i singoli individui. Rendersi conto che il mondo non inizia e finisce nell’orto di casa, e che va ben oltre la cerchia dei colleghi di lavoro, è il primo passo per porre fine a quella sensazione di smarrimento che porta gli individui, anche quelli più giovani, a radicarsi strenuamente nelle loro realtà locali.
Dalla loro parte, rispetto ai padri e ai nonni, le nuove generazioni hanno la tecnologia: non è più necessario disporre di capitali ingenti per comprare il terreno, costruirci la fabbrica, importare i macchinari, pagare i lavoratori, come bisognava fare una volta, per fare impresa. Oggi l’idea si può trasformare velocemente in ricchezza, grazie alla tecnologia, che collega il mondo in tempo reale e permette operazioni concrete attraverso azioni all’apparenza virtuali. È questa, per De Benedetti, la chiave di volta.
Porta poi l’esempio di suo padre, che, di ritorno dalla Grande Guerra, si laureò ingegnere e fece per anni il fresatore in Germania in un’azienda che produceva tubi flessibili, fino a quando i suoi datori di lavoro non si resero conto del suo potenziale. Gli proposero allora un’operazione basata su quello che oggi è chiamato venture capital: gli misero a disposizione i brevetti e il know how, con la condizione che De Benedetti padre trovasse gli investitori disposti a mettere il danaro per aprire la prima sede italiana della ditta tedesca. Questi i primi passi di quello che poi è diventato un impero.
La differenza, sottolinea Carlo De Benedetti, sta nello spirito con cui si affrontava la rinascita allora e con cui lo si fa oggi: in un’Italia che usciva dalla guerra, dopo il 1945, nulla sembrava spaventare; la condivisione dei successi era all’ordine del giorno (“mi ricordo quanto eravamo felici, tutti, il giorno che un nostro operaio riuscì finalmente a comprarsi l’automobile”). Oggi invece l’entusiasmo s’è spento, come se, viziati dall’agiatezza, fossimo rimasti senza stimoli. Questa paralisi è, per l’imprenditore, imputabile alla classe politica, che negli ultimi 20 anni non ha costruito un progetto di lungo termine per il Paese. Ha parole di lode per il presidente del Consiglio Monti, ma la sua è di necessità una politica dell’emergenza, mentre l’Italia ha bisogno, oltre che di dar risposta al “qui e ora”, soprattutto di mettere a punto una visione che abbracci orizzonti lontani.
È quindi ai singoli individui che De Benedetti guarda come alla forza in grado di guidare la ripresa: quella classe media che in ogni luogo e in ogni tempo ha costituito la base economica e sociale dei diversi paesi, e che oggi si sta assottigliando inesorabilmente, non solo da noi, ma anche negli Stati Uniti, dove il fenomeno della divaricazione della ricchezza è ancora più marcato che in Europa (negli Usa, l’1% della popolazione possiede il 45% della ricchezza). La presenza della moneta unica in Europa impedisce di ricorrere ancora a quel recupero fasullo di competitività che prima dell’euro si otteneva ogni tre anni con la svalutazione della lira e grava primariamente sulle spalle della classe media, cui di fatto è delegato il compito di recuperare la strada della crescita.
Come? Mettendosi in gioco, consci delle nuove regole con le quali dobbiamo giocare, dei nuovi mezzi e dei nuovi confini, e con un obiettivo di lungo termine che sarà quello di ognuno, ma che inevitabilmente farà da volano anche per tutti gli altri e quindi per il Paese intero.
L’unico elemento di reale competitività che ciascuno di noi ha, afferma in conclusione Carlo De Benedetti, è il sapere, la conoscenza. È questo il patrimonio che va sempre coltivato, perché permette agli uomini, agli statisti, ai Paesi di guardare “oltre le Colonne d’Ercole”.
La conoscenza, e la libertà: nelle parole con cui l’imprenditore chiude il suo libro si trova un omaggio carico di significato a quel paese, la Grecia, oggi in grande difficoltà, ma dove tutto ebbe origine: i giganti economici del mondo globalizzato possono e devono farci paura per la loro capacità produttiva, ma la democrazia nata in Grecia ed esportata sulle navi mercantili in gran parte del mondo resta l’esempio più alto di civile convivenza tra gli uomini.
Valentina Berengo