SOCIETÀ

Miti e realtà della politica italiana

In Italia c’è la Prima o la Seconda Repubblica? Il quesito, che ad alcuni potrebbe sembrare marginale, è in realtà la chiave per comprendere quanto sia fuorviante l’immagine del nostro sistema istituzionale e politico che in genere viene proposta. L’espressione, di cui sono responsabili media, studiosi e gli stessi attori della scena politica, tende ad accreditare un mito che ha poco a che fare con la situazione del nostro Paese. 

È dall’inizio degli anni Novanta che siamo abituati a sentir parlare di “Seconda Repubblica” per indicare l’innovazione avvenuta con la caduta dei partiti che avevano caratterizzato l’Italia dal dopoguerra a Tangentopoli e la presunta, conseguente riforma del sistema politico: un mutamento che si sarebbe realizzato con il passaggio a un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario e alla nascita di coalizioni di partiti contrapposte, in grado di sfidarsi per il governo. Una nuova fase presentata spesso come una svolta: dopo quasi un cinquantennio di “democrazia bloccata”, in cui era impossibile una reale alternanza politica al governo del Paese perché comunisti e destra ne erano esclusi, si sarebbe finalmente realizzata la possibilità, vitale per una democrazia compiuta, di far nascere poli contrapposti, in grado di competere con pari dignità per guidare l’Italia.

A smontare questa lettura semplicistica pensa Miti e realtà della Seconda Repubblica, un volume curato per Ediesse da Nicola Genga e Francesco Marchianò. I due ricercatori hanno raccolto gli interventi tenuti da politologi, storici e altri studiosi nel corso di due edizioni del convegno di Cetona, che ogni anno raduna intellettuali e politici per riflettere sullo stato della nostra democrazia e ripercorrerne le vicende storiche.

Diversi per approccio e area di interesse, i saggi di Miti e realtà convergono su una visione che ridimensiona drasticamente la portata del cambiamento avvenuto in Italia. Non ci può essere “Seconda Repubblica” senza riforme costituzionali che modifichino in profondità l’architettura istituzionale, e non basta certo una nuova legge elettorale per ottenere questo obiettivo. D’altra parte, il ridimensionamento dei partiti e dei loro apparati non si è tradotto in un bipolarismo che fosse garanzia di reale stabilità di governo e riducesse i fenomeni di corruzione. E il principio dell’alternanza, realizzatosi (per via elettorale) per la prima volta solo con le votazioni del 2001, non ha portato a una dialettica politica basata sulla reciproca legittimazione tra gli schieramenti né alla convergenza, da parte di maggioranze più ampie di quelle governative, su progetti condivisi di riforma della Costituzione.

Un problema che appare connesso alla mancata definizione di uno status per l’opposizione e all'elevata conflittualità tra le forze politiche. Insomma, non si tratta di condannare il bipolarismo o la logica dei sistemi maggioritari in sé, ma di portare alla luce quanto questi concetti siano stati “anestetizzati” all’interno del bipolarismo all’italiana, che seguirebbe la logica dello spoil system e della corsa a occupare ogni spazio di potere da parte della coalizione vincente, anche a costo di minare l’equilibrio tra istituzioni.

L’analisi non risparmia nemmeno l’altro mito connesso al bipolarismo, la governabilità: un lieve aumento della durata media dei governi succedutisi dal 1994 non ha risolto, infatti, il problema della fragilità dei nostri esecutivi e delle contrapposizioni interne che ne rendono problematica l’azione. Miti e realtà ci spiega questa transizione incompiuta, le cui incertezze e ambiguità ci ricordano quanto i chiaroscuri della nostra cultura politica siano distanti dall’aureo grigiore di Westminster.

Martino Periti

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