SOCIETÀ
"Neutralità della Rete", una sentenza la mette a rischio

Brutte notizie per il web: la "neutralità della Rete" negli Usa subisce un duro colpo a seguito della sentenza emessa il 14 gennaio 2014 dalla corte d'appello di Washington che accoglie il ricorso di Verizon, uno dei più importanti internet provider. A essere in discussione è uno degli aspetti fondamentali di internet come la conosciamo: il suo carattere di piattaforma universale e neutrale (così Tim Berners-Lee, uno dei creatori del world wide web), indifferente ai contenuti e ai loro fornitori. Comunemente definito net neutrality, questo principio potrebbe adesso divenire non più vincolante. In altri termini, la Rete rischia di diventare come le pay tv: uno scenario dove i provider possono decidere di escludere servizi o siti dalle offerte di connessione, regolando i costi a seconda dell'offerta – più o meno ampia, con maggiore o minore velocità di connessione – scelta all'utente e dei loro accordi commerciali coi fornitori di contenuti.
Con una sentenza di 81 pagine la corte d'appello ha infatti stabilito che la Federal communications commission (Fcc), l'agenzia governativa indipendente per la classificazione dei servizi informativi e delle tecnologie per la trasmissione digitale di dati entro le reti, ha ecceduto le sue competenze di regolatore. Non una novità. Infatti già nel 2010 una precedente corte d’appello si era pronunciata nel merito decidendo sul ricorso dell’operatore Comcast. La decisione odierna potrebbe spazzare via le Open internet order, le regole definite dalla Fcc che rappresentano il cardine della neutralità della Rete e che vietano agli operatori di offrire pacchetti con tipologie diverse di abbonamento, obbligandoli invece a fornire a tutti gli abbonati un accesso completo e a pari condizioni. La sentenza attuale costituisce quindi un nuovo capitolo della battaglia legale fra i maggiori provider e la Fcc, un’autorità pubblica con maggiori poteri rispetto alle corrispondenti Authority italiane, come l’Agcom.
E punto di partenza per la decisione dei giudici è stata una distinzione introdotta ancora nel 2002 dalla stessa Fcc, al tempo in cui era presieduta da Michael Powell, figlio dell’ex segretario di Stato della presidenza Bush. A quell'epoca l'autorità aveva infatti stabilito che le internet companies sono da considerarsi "information services" e non "telecommunication companies", un distinguo potenzialmente rischioso perché metteva i service provider al margine delle competenze statutarie dell'autorità. Nonostante l'impegno di Julius Genachowsky, il primo presidente dell'Authority nominato da Obama e che aveva ben compreso il problema, il quadro non era stato successivamente riformato, ed è divenuto ora una delle basi della sentenza in questione.
Preoccupati i commenti che arrivano dal mondo della Rete, che temono il sorgere di un nuovo modello di web, basato sulla frammentazione e sulla monetizzazione dei singoli contenuti. La Fcc dovrà decidere se accettare la sentenza o fare ricorso, ma nel frattempo per l'economia della Rete le conseguenze potrebbero essere enormi, mettendo a rischio le ambizioni Usa sulla banda larga e aprendo la porta ad accordi tra operatori di telecomunicazioni e aziende web per creare corsie preferenziali di accesso a contenuti e servizi. Secondo il Wall Street Journal, i service provider sarebbero ora liberi di sperimentare nuovi tipi di accordi, facendo pagare dei costi più alti per veicolare contenuti a velocità maggiore o, al contrario, diminuendone la velocità, ovvero la qualità di fruizione. Nella battaglia sulla net neutrality un aspetto importante è l’assetto dei servizi mobili triple-play (la combinazione di telefonia mobile, internet a banda larga e mobile tv); per poter competere le compagnie che gestiscono le connessioni via cavo e le società di telecomunicazioni hanno proposto la separazione del traffico televisivo e telefonico da quello Internet.
La sentenza, in particolare, boccia le norme adottate nel 2010 dai regolatori Usa. La Fcc, per la prima volta in un grande paese democratico, aveva infatti valutato troppo alto il rischio che gli operatori decidano di fatto, sotto banco, del futuro dell'innovazione: accelerando, bloccando o rallentando i servizi a seconda dei propri interessi. Le regole impongono per prima cosa trasparenza – il solo punto che la sentenza odierna lascia in piedi – prevedendo l’obbligo per tutti gli operatori (fissi e mobili) di rivelare a utenti e aziende web come gestiscono traffico, prestazioni e termini commerciali.
Ma la Fcc imponeva però anche altre cose agli operatori fissi: di non bloccare servizi e contenuti web legali e non "fare discriminazioni irragionevoli" tra i pacchetti di traffico. Aveva poi scelto di lasciar fare al mercato per quanto riguarda i "servizi specializzati" o "gestiti". Certo non vietava a operatori e fornitori di accordarsi per consentire servizi speciali - come smart grid e sistemi di sicurezza domestica - che richiedono una qualità garantita, ma la condizione era comunque quella di non danneggiare l'innovazione e l'internet aperta.
E adesso? La commissione federale di regolazione potrebbe reagire, presentando appello fino alla Corte suprema, o riscrivere il regolamento. E non è detto che lo farà, perché nel frattempo è cambiato il suo presidente. La situazione di incertezza potrebbe anche mettere in stand-by operatori e aziende web: troppo alto, forse, il rischio di vedersi bloccare gli investimenti da sentenze che dovessero ribaltare quella odierna.
La battaglia per la neutralità della Rete non è finita, ma da oggi è un po' più in salita.
Antonella De Robbio