SOCIETÀ

Ocse: troppi italiani con poche competenze per la vita e il lavoro

Poveri di istruzione. Poveri di letture. Poveri di risultati scolastici. E ora, anche, poveri di competenze di base. Non passa giorno che gli italiani non siano trafitti da qualche ricerca, graduatoria, analisi su istruzione e apprendimento: tutte concordi, inesorabilmente, nel piazzarci agli ultimi posti tra le nazioni occidentali. L'ultima bordata arriva dall'Ocse, l'organizzazione che riunisce 34 stati ad economia avanzata. Con il progetto Piaac, l'Ocse ha valutato le competenze che la popolazione tra i 16 e i 65 anni possiede nel gestire ed elaborare le informazioni fondamentali per vivere e lavorare.

L'indagine è stata compiuta su una ventina di paesi, essenzialmente membri Ocse europei (la maggioranza), asiatici e nordamericani. Le due capacità chiave valutate dall'indagine sono la literacy, che permette, partendo da testi scritti, di elaborarne le nozioni per renderle concretamente utilizzabili, e la numeracy, che persegue gli stessi obiettivi partendo da concetti matematici. Test-tipo di literacy: una tabella indica, per ciascun attrezzo ginnico, il suo grado di efficacia su certi muscoli del corpo; si deve indicare quali sono i muscoli che ottengono i maggiori benefici da uno specifico attrezzo. Esempio di numeracy: un negozio offre due paia di scarpe con uno sconto del 50% sul paio che costa meno; dati i prezzi iniziali di ciascun paio, bisogna calcolare la spesa totale.

I quesiti variano per difficoltà, su una scala che va da 0 (nessuna competenza) a 5 (massima competenza), dove 3 è ritenuto il livello minimo sufficiente per "un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali" (come recita la presentazione della ricerca). Non si tratta, in sintesi, di nozioni acquisite, ma dell'abilità nel partire da esse per realizzare conclusioni e astrazioni. Come si diceva, per l'Italia i risultati sono sconfortanti: su 21 stati, si classifica all'ultimo posto per punteggio medio di literacy e al penultimo per numeracy. Più in dettaglio, in literacy il punteggio medio degli italiani è 250, contro una media internazionale di 273 e un punteggio massimo (Giappone) di 296; in numeracy l'Italia totalizza 247 (seguita dalla sola Spagna, con 246), contro una media di 269 e un massimo di 288 (ancora Giappone). In entrambe le competenze oggetto d'indagine l'italiano medio si colloca al livello 2, ben al di sotto della sufficienza minima (che richiede un punteggio da 276 in su). Impressionante è anche il divario di competenze tra studenti italiani e stranieri: il livello medio di un laureato italiano è pari a quello di un diplomato giapponese, australiano o finlandese. Analogamente, i diplomati di scuola superiore italiani possiedono competenze comparabili a quelle di chi, negli altri paesi, ha completato il solo obbligo formativo.

L'indagine (che in Italia è stata curata da Isfol) è analizzata dal dettagliato rapporto di una commissione ad hoc, presieduta da Tullio De Mauro, incaricata dal Miur di valutare i dati del progetto Piaac e formulare proposte operative per accrescere le competenze degli italiani in età adulta. Nel rapporto si sottolinea la necessità di ridurre l'abbandono scolastico precoce "mediante un'istruzione accessibile e di qualità, già dalla prima infanzia ma anche il fatto che con l'avanzare degli studi il divario di rendimento rispetto alle altre nazioni aumenta, anziché diminuire. Altro elemento significativo è come in Italia solo una modesta percentuale di posti di lavoro (intorno al 20%) richieda titoli di studio universitari; una quota simile di italiani, inoltre, è quella impegnata in occupazioni che richiedono competenze di alto livello. Tra le cause della situazione italiana, la commissione individua il basso livello medio di scolarità, l'assenza di un sistema di formazione professionale adeguato, la staticità delle fasce sociali, l'alta disoccupazione e il numero elevato di giovani che non studiano né lavorano (i dati dimostrano che il grado di competenze è sempre maggiore per studenti e lavoratori piuttosto che per pensionati o inattivi). Si rimarca anche la scarsa consuetudine del sistema educativo nazionale a una misurazione delle competenze degli studenti. Venendo alle proposte operative, secondo la commissione, oltre ad assicurare "il raggiungimento di competenze/abilità utili per la vita lavorativa e sociale" è necessario intervenire sul mercato del lavoro perché "migliori competenze vengono acquisite nella vita attiva" e quindi "possono giocare un ruolo importante le politiche attive dell'occupazione e del welfare".

Secondo la commissione, l'attuale sistema di certificazione delle competenze, basato su titoli di studio con valore legale, non può bastare per presentarsi con successo nel mondo del lavoro. Viene perciò proposta l'adozione di meccanismi di certificazione differenti (il "libretto formativo") che possano indicare una serie di competenze di base secondo una scala oggettiva e riconosciuta all'estero, come avviene già, ad esempio, per le conoscenze informatiche. Non è trascurato il valore della partecipazione alla vita civica e sociale (fattori che influenzano in positivo il livello di competenze possedute): servono quindi più iniziative sociali e culturali, in particolare per la terza età. Le università, infine, sono invitate ad aprirsi sempre più all'insegnamento delle "competenze degli adulti", direttamente collegate alle richieste del mondo del lavoro, e ad incrementare i tirocini formativi.

Obiettivi ambiziosi, cui è arrivata una prima risposta dalla politica: i ministri uscenti dell’istruzione e del lavoro, Carrozza e Giovannini, hanno annunciato pochi giorni fa l’istituzione di un ufficio di collegamento tra i due dicasteri con il compito di elaborare proposte in tema di istruzione e formazione professionale. Riuscirà il nuovo governo a renderci più competenti dei giapponesi?

Martino Periti

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