SOCIETÀ
Pena di morte: l'Europa leader degli abolizionisti

“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio” scriveva Cesare Beccaria quasi 250 anni fa. Per fortuna il progressivo aumento dei governi abolizionisti è un trend ormai affermato: i dati del Rapporto 2012 dell'associazione Nessuno Tocchi Caino mostrano che oggi i paesi ad aver cancellato la pena di morte, per legge o nella pratica, sono 155; erano 138 nel 2005. Quando nel 1981 la Francia abolì la ghigliottina, era il 37° governo a negare la morte per mano dello Stato.
Ad oggi sono invece 43 i paesi che mantengono la pena capitale; di questi, 36 sono paesi dittatoriali o illiberali. E in 17 di essi si concentra il 99% del totale mondiale di esecuzioni. Nel 2011 la sola Cina ha “giustiziato” circa 4.000 uomini e donne, l’80% del totale mondiale. Sul terribile podio siedono anche l’Iran, che ha effettuato almeno 676 esecuzioni, e l’Arabia Saudita, dove il boia ha colpito almeno 82 volte, armato spesso da tribunali in cui la Sharia vien applicata in maniera stringente. La presenza di un governo democratico, da sola, non è portatrice di abolizionismo, come dimostrano le posizioni di Stati Uniti e Giappone, ma amplifica le contraddizioni del sistema. Proprio in Giappone, dove nel marzo di quest’anno sono stati impiccate tre persone condannate per omicidio, hanno sede due società, la Tadano e la UNIC, che dal 2011 hanno interrotto ogni rapporto commerciale con l’Iran: erano le principali fornitrici di gru per impiccagioni dello Stato mediorientale, dove le esecuzioni pubbliche vengono spettacolarizzate attraverso il prolungamento del dolore e del momento della morte. Le due società erano state richiamate dalla UANI, l’organizzazione che si fa paladina della lotta contro il nucleare in Iran.
In un’Europa, invece, terra totalmente libera da quello che è stato più volte definito l’“omicidio di Stato”, fa eccezione la Bielorussia. A marzo sono stati messi a morte Vladislav Kovalyov e Dmitry Konovalov per l’attacco terroristico alla metropolitana di Minsk nell’aprile del 2011, che costò la vita a 15 persone e ne ferì più di 200. La comunità internazionale ha sollevato molti dubbi sull’equità del processo e molti sono stati gli appelli di clemenza, rimasti inascoltati, al premier Lukashenko. I parenti dei condannati hanno saputo solo più tardi, per corrispondenza, della loro morte; non hanno potuto vederne i corpi, né sono a conoscenza del luogo in cui sono sepolti. Se si fa eccezione per la Bielorussia, dunque, è l’Europa la portabandiera del pensiero abolizionista, con l’Italia in prima linea, promotrice, nel 2007, della proposta di moratoria sulla pena di morte che ha ottenuto un sì pieno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, grazie al lavoro congiunto di tutta l'Unione europea, ma anche di Paesi come Messico e Brasile. Il governo degli Stati Uniti non ha votato per la moratoria, ma nemmeno avrebbe potuto, visto che non sono solo i tribunali federali, ma anche quelli dei singoli stati, a decidere sull’applicazione delle pene. Ma dal 2007 diversi stati si sono schierati contro le esecuzioni: il primo ad abolire la pena di morte è stato il New Jersey, seguito da New Mexico nel 2009, Illinois nel 2011 e Connecticut nell’aprile del 2012. Nello Stato di New York la pena capitale, non ancora formalmente abolita, è stata dichiarata non applicabile dalla Corte Suprema dello Stato (People v. LaValle, 3 N.Y.3d 88, 2004). Non tanto, o non ancora, una presa di posizione morale contro la pena di morte, ma piuttosto uno stop all’iter procedurale applicato nello Stato di New York, senza andar troppo oltre a quello che gli stessi giudici definiscono il crocevia fra vita e morte. Similmente, Oregon, Kentucky e Arkansas sono in moratoria, altri stati non applicano la pena capitale da quasi un trentennio. In qualche modo, anche negli Stati Uniti si assiste dunque ad un’evoluzione tendenzialmente abolizionista; di contro, se a novembre il 59% dei californiani ha votato per il candidato democratico alle elezioni presidenziali, al referendum per l’abolizione della pena di morte il 54% degli stessi californiani ha scelto di invece di mantenerla. Tutto ciò accade nonostante le ricerche dimostrino che da anni l’indice degli omicidi sia più alto negli stati in cui la pena di morte è vigente, e, anzi, la forbice continui ad allargarsi. Si fanno invece sempre più spazio, all’interno del dibattito americano sulla pena capitale, ragioni di natura economica: si stima che per ogni detenuto che affronta un processo nel quale rischia la condanna a morte si spenda circa tre volte in più rispetto agli altri imputati; e che mantenere un condannato nel braccio della morte costi fino a 20 volte di più di mantenere invece un “ergastolano”. Calcoli razionali, più che appelli a valori morali o etici, ma comunque insufficienti a minare la paura e la rabbia dei solitamente pragmatici cittadini statunitensi.
Se però negli Stati Uniti il verbo che indica il “mettere a morte”, execute, definisce un approccio asettico alla soppressione di vite umane per mano del boia, quasi a sottolineare la necessità di prenderne distanza, in Italia la parola giustiziare rimbomba dissonante, nello stridere della giustapposizione fra il senso della giustizia e l’atto dell’uccisione per mano dello Stato.
Chiara Mezzalira