SOCIETÀ

Province, per chi suona la spending review

La decisione di riduzione e accorpamento delle province ha causato un vero choc per il nostro sistema amministrativo, cresciuto per stratificazione e non per selezione naturale. E i criteri quantitativi fissati per l'operazione rischiano di dar luogo a soluzioni non sempre coerenti ed efficaci. Vediamo perché.

Popolazione e superficie sono i due parametri per la semplificazione del quadro delle autonomie locali fissati dalle ultime norme (l’art. 17 del decreto legge 95 del 2012 e la relativa delibera attuativa, varata nel Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012).

Non esisteranno più le province italiane con meno di 350.000 abitanti e con un’estensione territoriale inferiore ai 2.500 chilometri quadrati. Ne consegue che con la spending review il numero complessivo di province si ridurrebbe a 56, ben due in meno delle 58 costituenti l’Italia appena unita (1861).

In realtà la mossa decisiva è stata compiuta con il decreto Salva-Italia dello scorso dicembre. Il decreto cancella le giunte provinciali, riduce i consiglieri, abolisce le elezioni per le province e trasferisce funzioni ai comuni. L'ente intermedio dovrà svolgere "esclusivamente le funzioni d’indirizzo politico e di coordinamento delle attività dei comuni". Il presidente è eletto dal consiglio provinciale, che a sua volta non sarà eletto ogni cinque anni, ma sarà composto da non più di dieci componenti selezionati dai consigli comunali del territorio di riferimento. Le funzioni delle province e i loro circa 60.000 dipendenti saranno trasferite ai comuni o acquisite dalle regioni.

Per le province la parola d’ordine è: sopravvivere e non finire nel calderone della provincia confinante. Fallito il piano A, cioè dimostrare di costare meno di altri livelli di governo e di avere risparmiato negli ultimi anni più di comuni e regioni, ora si è passati al piano B. Il piano si articola nello sviluppo di alleanze e scambio politico con i comuni per ridisegnare i confini delle province e rientrare nei criteri di popolazione e superficie imposti dal governo centrale. Un balletto che mostra il fallimento sostanziale di una riforma che, sposando la logica dei governi precedenti, si è basata esclusivamente su indicatori strutturali (popolazione e superficie) ignorando indicatori funzionali (ad esempio le strutture scolastiche o i chilometri di strade da manutenere). Prendiamo la manutenzione scolastica, che ha subito suscitato tanto clamore. Si potrebbe pensare, per esempio, che popolazione e territorio rispecchino la distribuzione e la densità degli edifici scolastici superiori di competenza provinciale. Se in base ai dati forniti dall’UPI (Unione province italiane) tenessimo conto del numero di plessi scolastici (scuole secondarie di primo e di secondo grado), e ritenessimo che debbano sopravvivere le province con più di 150 plessi, avremmo una situazione solo in parte diversa da quella prefigurata dalla delibera governativa. 

Il Veneto, per citare un esempio, in base al criterio dei plessi scolastici non vedrebbe mantenute solo tre province (Venezia, Verona e Vicenza) ma quattro: (Verona, Vicenza, Treviso e Padova). Anche in Lombardia le cose cambierebbero: oltre a Milano, Brescia e Bergamo, al posto di Pavia si “salverebbe”  Varese. Si potrebbe proseguire con questo registro anche con riguardo alle strade, alla protezione del territorio o altro. I criteri funzionali potrebbero costituire un correttivo accettabile se consentissero di differenziare in base alle caratteristiche della popolazione e al rapporto tra queste e la presenza reale di servizi o attività sul territorio.

Resta comunque il fatto che il numero dei plessi, come dei chilometri di strade, nulla ci dice sulla qualità e i costi dello loro manutenzione.

In realtà la spending review va oltre la semplice riduzione della spesa per consumi intermedi, in gran parte riconducibile a personale trasferito, e punta a ridurre i costi di un sempre più inefficiente eccesso d’intermediazione politica. La trasformazione delle province in enti di secondo livello, e il loro accorpamento, dovrebbe garantire processi decisionali più semplici e più brevi. In un’Italia in piena crisi della rappresentanza politica e con scarsa capacità di governo della frammentazione e dei particolarismi, le modalità d’interazione e integrazione tra stato, regioni, province, comuni moltiplicano i costi derivanti dai “veti incrociati”, dall’ostruzionismo burocratico, delle difficoltà di coordinamento e di integrazione. Stiamo pagando i costi crescenti di una frammentazione politica e amministrativa spesso inadeguata a trattare problemi che nel tempo hanno cambiato natura e portata. A ciò si aggiunge un sistema partitico focalizzato sull’acquisizione del consenso di breve periodo e una classe dirigente locale non sempre all’altezza delle sfide. La governance-multilivello, attraversata dal particolarismo identitario e da un sempre più fitto scambio politico, è resa ancora più inefficiente da un elevato tasso di sovrapposizione di competenze, da un’iperproduzione normativa e da differenziali di capacità amministrativa, che rendono i risultati delle politiche sempre più incerti, nei tempi, nei modi, nei costi economici complessivi e nei risultati.

L’appello ai principi costituzionali e la difesa della tradizione locale allontanano la riflessione su quale sia oggi la dimensione più soddisfacente di governo di alcune politiche e servizi. Si può ad esempio ipotizzare che la non brillante reputazione italiana in materia di prevenzione e difesa del suolo, infrastrutture scolastiche, culturali, sportive e dei trasporti abbia qualcosa a che fare con questo tira e molla sulle province? Le decisioni governative, lungi dall'affrontare tutti questi nodi, vanno per ora a colpire nel mucchio e l’esito finale di questa vicenda è tutt’altro che scontato.

 

Maria Stella Righettini

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