SOCIETÀ
Province, questo matrimonio non s’ha da fare

Don Abbondio davanti ai bravi. Illustrazione di Francesco Gonin (1840)
Sembrano vicende di manzoniana memoria le ultime evoluzioni sul futuro delle province italiane. Era novembre (del 1628) quando,“girato l’angolo, il povero curato, vide una cosa che non s’aspettava e non avrebbe voluto vedere...”. È novembre anche per un attualissimo Don Abbondio, il ministro Patroni Griffi, a cui è capitato di imbattersi nelle macchinazioni dei rappresentanti dei poteri locali (Upi) per impedire il matrimonio delle province: dalle minacce, come la sospensione del riscaldamento, all’appellarsi ai “signorotti” locali (deputati in parlamento disposti a proporre emendamenti). La guerra dei territori per la “difesa dell’autonomia” procede a colpi di deroghe, modifiche legislative, ricorsi alla Corte costituzionale e referendum locali che rivendicano appartenenze a questa o quella provincia, regione o area metropolitana (vedi il caso di Piacenza).
Il riordino istituzionale delle province sta rivelando uno dei principali guasti prodotti dal particolarismo, dalla frammentazione e dall’esaltazione dello spirito identitario: la difficoltà di individuare un “bene comune” che non corrisponde necessariamente con quello del “mio comune” (o della “mia provincia”).
Il processo innescato dalle leggi di riforma adottate dal governo Monti sta producendo alcuni paradossi che rischiano di favorire una soluzione “gattopardesca”. Far sì che tutto cambi perché nulla cambi. Vediamo nel dettaglio:
- I comuni capoluogo sono diventati i principali promotori del riordino istituzionale e lavorano soprattutto per costruire le aree metropolitane. In Veneto i due poli Padova-Treviso-Venezia e Verona-Rovigo-Vicenza promettono nuove geometrie e alleanze territoriali mentre la regione Veneto aspetta che la Provvidenza (Corte Costituzionale) risolva a monte il problema e si pronunci sulla legittimità costituzionale del decreto “Salva Italia”.
- Le province sono sempre più contrarie agli accorpamenti, possono contare quasi esclusivamente su azioni di lobbying diretta sul parlamento e vanno alla ricerca di deputati disponibili a sostenere modifiche al “Salva Italia”.
- La vera riforma delle province, che è consistita non tanto nel loro accorpamento ma nel loro declassamento ad enti di secondo livello, giustifica l’attivismo dei sindaci, che dovrebbero raccogliere l’eredità delle province. Allo stesso tempo rende difficile per i partiti conciliare al loro interno le istanze contrapposte rappresentate da sindaci e presidenti di provincia. Sarà interessante vedere se e come questa partita influenzerà la campagna elettorale nazionale.
- Se la legge nazionale dovesse essere modificata a favore del ritorno all’elezione diretta delle province e in parallelo proseguisse la costruzione delle “aree metropolitane” potremmo ritrovarci con quattro livelli di governo (comuni, province, aree metropolitane e regioni) anziché gli attuali tre. L’ipotesi non è così surreale dal momento che il nostro sistema si sviluppa da sempre per stratificazioni successive rispettando prevalentemente logiche elettoralistiche e di consenso politico piuttosto che di efficienza e qualità della governance.
- Benché, da tempo, si affermi che “nulla sarà più come prima” e che questa crisi epocale cambierà molte cose, al momento le logiche locali prevalenti sembrano appartenere a un vecchio registro, polveroso e consunto: le alleanze tra leader locali rispondono a schemi da “prima repubblica” (se non addirittura in alcuni casi, da Repubblica Veneta).
- Le regioni in tutto questo si trovano a un bivio. La prima via consiste nell’adottare una strategia attendista sperando che, prima o poi, qualcuno risolva per loro le grane politiche e i conflitti locali innescati dal decreto Monti, minimizzando il danno politico. La seconda nell’assumere un ruolo attivo non tanto o soltanto nelle politiche di "annessione" comunale e provinciale, quanto nella programmazione strategica della qualità e sostenibilità della governance locale, dei servizi e delle infrastrutture ai cittadini. Infrastrutture che non sono più soltanto strade, autostrade e ferrovie ma anche e soprattutto reti digitali, scuole competitive, difesa del suolo, integrazione orizzontale tra servizi.
Il clamore è diffuso, le iniziative che precedono le primarie e le imminenti elezioni politiche sono numerose e spesso convulse, ma “lor signori sono uomini di mondo e sanno come vanno queste faccende…”
Maria Stella Righettini