SOCIETÀ
Reddito minimo garantito, si può fare anche in Italia

Termini Imerese (Palermo), novembre 2011 - Ultimo giorno di produzione nello stabilimento Fiat dopo 41 anni di attività. Foto: Giuseppe Gerbasi/contrasto
La proposta di introdurre un reddito garantito in Italia è spesso presentata nel dibattito pubblico con gli attributi dell’utopia, dell’astrattezza. Tale proposta mancherebbe di realismo e sarebbe incompatibile con lo sviluppo delle società fondate sull’economia di mercato. Il volume Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile scritto dal gruppo Bin Italia (Basic Income Network) per le edizioni del gruppo Abele ha il merito di portare chiarezza sull’argomento, offrendo un quadro articolato e completo delle esperienze di reddito minimo garantito in corso in vari paesi europei e delle sperimentazioni realizzate nelle Regioni italiane. La pubblicazione prende le mosse da una ricerca voluta e promossa dall’assessorato al lavoro, formazione e qualità della vita della Provincia di Roma e si fregia della collaborazione di ricercatori, giornalisti, magistrati ed esperti di diritto e di politiche pubbliche.
Dal libro emerge chiaramente come Italia e Grecia siano gli unici paesi europei a non avere alcuna forma di reddito minimo garantito. Attraverso un dettagliato lavoro di documentazione e analisi, il volume mostra come il modello italiano, da sempre fortemente orientato a garantire l’occupazione lavorativa (welfare occupazionale) non si sia mai preoccupato di tutelare i diritti di cittadinanza sociale. E, in presenza di una profonda situazione di crisi economica, questa stessa “via italiana” al welfare sta mostrando tutti i suoi limiti. Il nostro paese sta pagando lo strutturale ritardo delle trasformazioni dello stato sociale rispetto al mutamento delle forme dell’organizzazione sociale e del lavoro. E, in una situazione di crisi occupazionale, questo dà origine a ulteriori squilibri: chi ha un lavoro a tempo indeterminato ha accesso a svariate forme di tutela che coinvolgono sia il lavoratore che l’impresa; chi invece è impiegato in forme di lavoro post-fordiste, precarie, intermittenti, flessibili e temporanee si ritrova in una situazione ad alto rischio di esclusione sociale. È quindi evidente come la politica italiana sia rimasta miope di fronte al progressivo sgretolamento della forma tradizionale di lavoro, basata su occupazione a tempo pieno, mansioni univoche e una carriera lavorativa definita sul ciclo di vita.
Il libro del Bin Italia fa anche un elenco dettagliato della situazione a livello regionale, dove alcuni passi in avanti sono stati fatti. In quasi tutte le regioni sono state avanzate proposte di legge, quasi sempre su iniziativa dei gruppi di sinistra ecologia e libertà e, laddove presente, del movimento 5 stelle. Finora solo nel Lazio, in Sardegna e in Campania sono stati avviati timidi tentativi locali di sperimentazione, ma è evidente che per una riforma di tale portata occorra l’intervento del governo centrale.
Il volume non si avventura in ipotesi di costo, ma mostra come il welfare italiano si disperda in un’infinità di rivoli che, sommati tutti assieme, potrebbero pareggiare il costo delle misure di reddito garantito presenti in molti paesi. Inoltre, l’accorpamento di tutte le tutele esistenti in un’unica forma di sostegno permetterebbe controlli più accurati ed eliminerebbe l’annoso problema di chi beneficia di assegni familiari o di sussidi sociali senza averne i requisiti. Cancellare l’istituto della cassa integrazione, che è un unicum italiano, che tutela solo una parte dei lavoratori e che negli ultimi anni è costata circa 4 miliardi all’anno allo stato, trasferirebbe la tutela dal lavoro al lavoratore e renderebbe i mercati industriali più competitivi.
Quello che spesso ci si dimentica, infatti, è che i dati sulla disoccupazione dei paesi europei vanno letti alla luce delle tutele presenti nei singoli stati. Questo significa che, per esempio, i disoccupati britannici, che sono circa l’8%, ricevono un sostegno economico duraturo da parte dello stato, mentre la stragrande maggioranza dei disoccupati italiani, che sono oltre il 12%, no. Considerando infatti il caso di un lavoratore single e senza figli disoccupato da 60 mesi, risulta che l’Italia sia tra i paesi con i sussidi meno generosi, con un rapporto di solo 8% tra reddito da lavoro e reddito durante la disoccupazione. Come riporta laVoce.info, si tratta di un valore simile a quelli dei paesi dell’Est Europa e molto distante da quelli di paesi come la Germania (28%), la Francia (44%) o anche la Spagna (26%).
Inoltre, sempre secondo l’analisi de la Voce.info, questo dato medio italiano nasconderebbe “un ulteriore elemento di distorsione. E questo riguarderebbe la differenza tra il periodo iniziale di disoccupazione e quello successivo, la cosiddetta disoccupazione di lunga durata. In Italia all’inizio della disoccupazione si può spesso contare su un sostegno molto generoso (68%), garantito soprattutto dalla cassa integrazione (ma solo per alcune categorie di lavoratori), mentre per i disoccupati di lunga durata non esiste nulla e il rapporto tra reddito da lavoro e sussidi scende direttamente a zero”.
Tutto questo dovrebbe perciò far riflettere sulla diversità reale della condizione di disoccupato nei vari paesi dell’Unione e sulla necessità di aprire un dibattito politico serio sul reddito minimo garantito, se non altro per allineare il welfare italiano al modello europeo.
Marco Morini