SOCIETÀ
Le ristrutturazioni e gli accorpamenti dei servizi sanitari sono efficaci?

Le evidenze empiriche di beneficio funzionale e finanziario sono scarse, spesso l’effetto è l’inverso di quello atteso e l’incremento di dimensione organizzativa coincide solo con un incremento di complessità. Inoltre le barriere, fra servizi e fra professionisti, permangono anche all’interno delle organizzazioni, talora in misura superiore che fra le organizzazioni stesse. Infine, se le riorganizzazioni sono totalmente calate dall’alto (effetto ruspa), si perde la quotidiana, minuta attività di indirizzo e promozione di adeguate forme organizzative, di iniziative efficaci, di diffusione di buone pratiche (effetto cacciavite).
Risulta difficile, a un ipotetico studioso di politiche sociali e industriali, ipotizzare per un qualche ambito della vita collettiva un numero maggiore di riforme, riorganizzazioni istituzionali, ristrutturazioni dell’architettura complessiva, di quelle che si sono attuate – o si sono abbattute – sui sistemi sanitari. Già nei primi anni novanta, di fronte alle trasformazioni in atto nel National Health Service inglese, un autorevole studioso della London School of Economics, si domandava se questa vera e propria epidemia planetaria servisse effettivamente a qualche cosa.
Il motivo di tale epidemia si iscrive nelle mutazioni in atto nell’economia, nelle modifiche demografiche ed epidemiologiche, nella ricerca di una sostenibilità dei sistemi sanitari. In altri termini possiamo dire – ma si tratta di una evidente tautologia – che la diffusione e frequenza delle ristrutturazioni è prova evidente della loro necessità. A un osservatore disincantato, ad un operatore dei servizi sanitari, ad uno stesso utilizzatore attento risultano tuttavia due palesi contraddizioni, ovvero due elementi di dubbio:
- la rilevante immobilità e continuità di molte procedure, relazioni, abitudini (anche minute e quotidiane) che permangono immodificate all’interno di grandi sommovimenti istituzionali e organizzativi: basti pensare ai criteri di turnazioni del personale, alla concentrazione di attività ospedaliere nella sola mattinata, agli orari a cui i pazienti sono sottoposti in ospedale, alle più diffuse modalità di visita nei reparti di degenza ecc.
- la sostanziale assenza di una valutazione obiettiva sugli effetti – e talora anche sui motivi – delle ristrutturazioni.
In Inghilterra, probabilmente in relazione a un clima di complessivo ripensamento sulle – sciagurate – politiche del governo Cameron rispetto alla sanità, la NHS Confederation ha pubblicato un interessante rapporto titolato “Il trionfo della speranza sulla esperienza”[2](vedi Risorse). Il Rapporto prende in esame l’insieme delle ristrutturazione attuate negli ultimi 20 anni: riorganizzazioni, fusioni, abolizione di enti, creazione di nuovi organismi, riforma di servizi esistenti ecc.. Si evidenziava la breve durata di sopravvivenza di molte organizzazioni, in particolare quelle “intermedie” (single and small groups), fino al caso della National Care Standard Commission, la cui abolizione fu annunciata 17 giorni dopo il suo insediamento.
Perché vi sono così tante ristrutturazioni? Nel Rapporto sono individuate le cinque più comuni motivazioni:
- La difficoltà per i decisori ad intervenire sulla “scatola nera” dei meccanismi decisionali clinico – assistenziali.
- La popolarità delle filosofie di management, che comportano diverse iniziative di esternalizzazione, di controllo diretto dei processi centralizzandoli ecc.
- La volontà ad aggredire la burocrazia (“bearing down on bureaucracy”).
- La necessità di orientare più efficacemente le limitate risorse.
- L’ipotesi di realizzare economie di scala.
In realtà le evidenze empiriche di beneficio funzionale e finanziario sono scarse e spesso l’incremento di dimensione organizzativa coincide solo con un incremento di complessità. Inoltre le barriere, fra servizi e fra professionisti, permangono anche all’interno delle organizzazioni, talora in misura superiore che fra le organizzazioni stesse e la fusione dovrebbe essere la tappa finale, piuttosto che l’inizio, di un processo di aggregazione, volto a superare differenze procedurali e culturali.
Vi sono, tuttavia, anche motivi “extrastrutturali” e che attengono prioritariamente alla sfera del confronto e del consenso politico. In un’analisi pubblicata alcuni anni fa, anch’essa in ambito anglosassone, si evidenziavano altre motivazioni:
- La ricerca, da parte degli attori politici, di dimostrare, con chiarezza che “qualche cosa è stato fatto!”.
- Richiamare l’attenzione dei mass media, assai più interessati ai cambiamenti strutturali che all’attività puntuale di riorganizzazione quotidiana negli ospedali e nei servizi territoriali.
- Dare una dimostrazione della “capacità di intervento del potere”.
- Rimuovere o marginalizzare staff poco affidabili o meno allineati.
Tuttavia le prove a favore di una efficacia restano assai scarse, anche per i settori non sanitari. Una analisi effettuata nel settore commerciale e industriale negli Usa evidenziava che nel 53% delle riorganizzazioni vi era stato un aumento dei prezzi e una flessione della competitività[5]; una riorganizzazione nei settori del Ministero della Difesa inglese ha evidenziato che a due anni di distanza la produttività era ridotta e i benefici assenti.
A fianco dei presunti benefici il Rapporto indica anche una serie di rischi:
- Un abbassamento del funzionamento dei servizi, con rischi per i pazienti.
- Un rallentamento nello sviluppo dei servizi di almeno 18 mesi.
- Lo staff avverte la distanza che lo separa dalla direzione generale.
- Si percepisce una perdita di familiarità e di informalità.
- A distanza di due anni non sono evidenti risparmi.
- Una maggiore difficoltà a diffondere in modo capillare le buone pratiche.
In sostanza, se le riorganizzazioni sono totalmente calate dall’alto, si perde quella quotidiana, minuta attività di indirizzo e promozione di adeguate forme organizzative, di iniziative efficaci, di diffusione di buone pratiche; in una parola di azione con il cacciavite, che è fondamentale in strutture complesse, professionalizzate e notevolmente autonome, capaci di cambiamenti se effettuati in modo capillare e con un elevato coinvolgimento professionale. Resta solo l’azione di ruspa, che può essere utile in pochi e identificati settori, in modo programmato e proceduralizzato, affinché sia affiancabile all’opera del cacciavite.
Queste riflessioni ed esperienze, che ci vengono dal contesto internazionale, dovrebbero essere tenute presenti quando si intende avviare una ristrutturazione di un Sistema sanitario, con eventuali fusioni ed accorpamenti, come si sente dichiarare dal Presidente del Consiglio[6] o come si ipotizza in alcune regioni, fra cui la Toscana. Sarebbe importante chiarire gli obiettivi della riorganizzazione, cioè il perché, e le modalità, le procedure, il percorso che si intende intraprendere, cioè il come.
Il perché individua le finalità, che non possono essere ovviamente, il solo “far tornare i conti” nel periodo immediato (tanto più che la letteratura è unanime nel segnalare un peggioramento, anche finanziario, nei primi anni!). La ristrutturazione vuole incrementare l’efficacia del sistema in base a quali parametri? Si persegue la sostenibilità per i prossimi decenni, eliminando gli sprechi, controllando la domanda, elevando con interventi sui determinanti la salute della popolazione? Il come è l’altro elemento, articolabile ovviamente su molteplici parametri. Il suo “nocciolo” consiste tuttavia nel confronto con i professionisti, per coinvolgerli in un percorso comune ed attuare, proprio nel corso della riorganizzazione una governance – con il cacciavite – capillare e continua.
Marco Geddes
Articolo originale tratto da saluteinternazionale