SOCIETÀ

Una volta c'era la gogna, ora c'è Internet

C’era una volta la gogna. Peccatori e criminali che venivano esposti al pubblico ludibrio essenzialmente per due motivi: ferire l’autostima del reo e mettere in guardia i cittadini. Nel medioevo ne avevano una ogni città o castello: a Padova secondo la tradizione fu introdotta, come alternativa al carcere per debiti, addirittura da Sant’Antonio. Un tempo, quello delle umiliazioni pubbliche, che adesso sembra tornare con le moderne shit-storm su internet. Puoi essere un industriale di successo o un internauta qualsiasi: a distruggere la tua reputazione può bastare una frase politically uncorrect o semplicemente brutta o fuori luogo, amplificata viralmente dalla rete.

È questo (come mette in evidenza il titolo originale: So You've Been Publicly Shamed) l’argomento affrontato dal giornalista Jon Ronson nel libro I giustizieri della rete, edito da Codice. L’autore passa in rassegna una serie di casi in cui la reputazione di alcune persone è stata letteralmente annientata dalle bufere di insulti che ogni tanto si verificano su internet: è quello che ad esempio è successo a Jonah Lehrer, un tempo brillante e strapagato divulgatore scientifico (pare che in America sia possibile anche questo), accusato  di essere stato un po’ troppo “creativo” nel riportare alcune citazioni. Oppure a Lindsey Stone, ragazza normale con un lavoro in una comunità di adulti con disturbi di apprendimento, prima di perdere l’impiego e la dignità a causa di una foto irrispettosa pubblicata su Facebook.

Ronson analizza questi ed altri epic fails mediatici con gli occhi dei protagonisti, al tempo stesso artefici e vittime dei loro errori. Al centro c’è il modo in cui oggi la vergogna viene imposta e vissuta: un sentimento, spiega la sociologa Gabriella Turnaturi, da sempre fondamentale per ogni tipo di società perché “segnala lo stato della relazione fra singolo e comunità d’appartenenza, il grado di coesione di un insieme sociale, e molto racconta della condivisione di valori e di orientamenti”. “È incredibile quanto la vergogna sia un ingrediente necessario a renderci socievoli”, scriveva Bernard de Mandeville ne La favola delle api. Perché - aggiungeva Sartre ne L’essere e il nulla - questo sentimento soggettivo presuppone l’esistenza dell’altro, che ci interpella nel suo ruolo di osservatore e di giudice.

Per questo dalla notte dei tempi l’umiliazione pubblica è una delle punizioni più temute: la vergogna mortifica, rende morti, uccide in senso letterale. Un sentimento che mangia le altre sensazioni, ci annichilisce da dentro. “L’ignominia [è] universalmente riconosciuta come punizione peggiore della morte”, scriveva nel 1787 Benjamin Rush, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. Proprio per questo la gogna è stata abolita in Occidente, e per questo forse sta tornando. Certo con alcune fondamentali differenze: oggi i giustizieri della rete siamo noi stessi e non un potere organizzato, perché scovando e punendo qualcuno ci sentiamo migliori, sentiamo di fare del bene. Al tempo stesso però siamo sempre noi ad essere i sorvegliati, nonché i colpevoli da punire, secondo lo schema del controllo sociale reciproco: il panopticon su cui hanno riflettuto Bentham e Foucault o, se si preferisce, lo strumento di una nuova sorveglianza liquida di Bauman. 

L’umiliazione pubblica è però davvero moralmente accettabile? Non è un caso, secondo l’autore, che questa forma di punizione abbia avuto una rinascita nella Cina di Mao o nella Germania di Hitler, per non parlare del Ku Klux Klan. Lo svergognamento, sostiene il giornalista inglese, è profondamente pericoloso: “Distrugge le anime, brutalizzando tutti, spettatori inclusi, disumanizzandoli tanto quanto la persona che subisce la pena”. E l’accento esasperato sulla necessità di umiliare gli strambi e i cattivi espone tutti a gravi pericoli.

Il primo pericolo è per quella che chiamiamo privacy, ma che in realtà è la nostra stessa dignità, la nostra libertà di scegliere chi essere nella società. Per questo tutti in fondo nascondiamo agli altri e a noi stessi una parte del nostro mistero. “Tutti abbiamo dentro di noi, da qualche parte, qualcosa che abbiamo paura possa danneggiare la nostra reputazione... – scrive Ronson –  un po’ come con la masturbazione prima che di colpo tutti ne parlassero online con aria blasé. La masturbazione non interessa a nessuno, ma la reputazione… Be’, quella è tutto”. 

C’è poi un altro pericolo: quello di vivere e parlare nel timore costante di uscire dalla banalità, pensando continuamente alle conseguenze di ogni parola, ogni piccolo gesto suscettibile di andare al di fuori del gradimento generale. Un anticonformismo di facciata che produce un nuovo tipo di conformismo, un conservatorismo ancora più capillare. Dando luogo al paradosso più grande per uno straordinario mezzo di comunicazione come internet: quello di divenire infine un ostacolo insopportabile alla creatività e alla libertà di espressione.

Daniele Mont D’Arpizio

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