CULTURA

Sulla mia pelle apre Orizzonti. Con un pugno nello stomaco

Si accendono le luci e sorprendono buona parte dei (pochi) spettatori in lacrime. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, film di apertura della sezione Orizzonti del Festival di Venezia, è una pellicola forte. Quanto e forse anche più delle immagini di Stefano Cucchi che hanno inondato i telegiornali a fasi alterne tra una sentenza e un riesame, quelle che hanno colpito i telespettatori come un pugno nello stomaco, o magari come una manganellata sulla schiena.

Il progetto era davvero ambizioso: raccontare la storia di quegli ultimi giorni passati da Stefano tra carcere e ospedale, prima di morire per cause ancora da accertare, senza aver potuto dire addio alla sua famiglia. E farlo senza scadere nel patetico, o peggio nella polemica politica, ma allo stesso tempo anche senza rinunciare all’emozione. In effetti, come racconta Cremonini in conferenza stampa, non è facile far emergere l’anima di una storia dalla lettura di migliaia di pagine di asettici verbali. Ma l’intento era proprio quello di far parlare chi non l’ha mai potuto fare, perlomeno non dopo che la sua storia è diventata un caso mediatico.

 

Di solito quando si guarda un film, ci si identifica nel protagonista quando la propria storia ha elementi in comune con la sua. Qui è dura dire "poteva capitare a me". La maggior parte degli spettatori non aveva mai spacciato droga, e probabilmente non si troverà mai in carcere. Nonostante questo, in sala il silenzio era disarmante rispetto al film proiettato precedentemente. Azzardando un'ipotesi, si potrebbe dire che quello che accomuna gli spettatori a Cucchi e agli altri personaggi della pellicola è l'omertà. Prima di tutto del regista, che non mostra quello che capita dietro alla porta tra i carabinieri e l'arrestato. Poi di tutti i personaggi che a vari livelli intuiscono ciò che è capitato, o perlomeno una parte. E per finire, Cucchi stesso si fa complice di questa omertà, riferendo inizialmente di essere caduto dalle scale, per poi far emergere stralci di verità che non aiutano nessuno, men che meno lui.

Probabilmente è qui che scatta la molla del coinvolgimento: tutti almeno una volta nella vita ci siamo girati dall'altra parte, tutti abbiamo detto bugie, alcuni hanno fatto del male a una persona. Nessuno è innocente, come non lo era Stefano, che era una persona in difficoltà a cui il film non fa alcuno sconto.

A quei carabinieri fa ostentatamente il verso, mente e rifiuta le cure che avrebbero potuto salvargli la vita perché non gli fanno vedere il suo avvocato

Nella sceneggiatura di Cremonini e Lisa Nur Sultan non c'è infatti nessuna contrapposizione dicotomica: Cucchi è presentato come uno spacciatore, e nel corso della pellicola vengono alla luce le bugie che racconta, forse prima di tutto a sé stesso: non ammette di essere uno spacciatore, anche se sa benissimo che nella casa che non menziona ai carabinieri c'è nascosta della droga, che troveranno i suoi genitori solo quando sarà morto. A quei carabinieri fa ostentatamente il verso, mente e rifiuta le cure che avrebbero potuto salvargli la vita perché non gli fanno vedere il suo avvocato. Una resistenza insensata che lo allontana dallo stereotipo dell'eroe. Come altri personaggi si allontanano dallo stereotipo dei cattivi: alcuni sembrano cercare di aiutarlo, ma vengono bloccati dalle sue resistenze.

In effetti questa storia non sarebbe diversa da molte altre storie di carcerati, specie se si pensa ai 176 dei morti in carcere lo stesso anno di Stefano. E proprio per questo deve essere raccontata: perché un pezzo di noi ne fa parte, visto che la violenza inaudita è circondata da piccole scintille di omertà: non fanno scalpore, ma che hanno determinato il corso degli eventi.

Su tutte, quella del giudice annoiato che nonostante i vistosi lividi lo ha fatto chiudere in carcere. la registrazione dell'udienza, mandata in originale alla fine del film, fa accapponare la pelle, proprio perché il disinteresse che si coglie di fronte alla successiva sorte del giovane non è frutto di cattiveria, e gli spettatori possono immaginare il giudice che ha fretta di tornare a casa dai suoi figli, e non ha lo sguardo abbastanza attento per vedere il dramma che si è consumato. Questo film è un invito a guardare sempre la persona oltre al simbolo: Cucchi non è il santo che è rimasto vittima delle forze dell'ordine, Cucchi è una persona che non è stata trattata come tale, e a ogni spettatore resta da chiedersi se si sarebbe comportato diversamente.

Degna di nota è l'interpretazione di un irriconoscibile Alessandro Borghi, che per entrare nei panni di Stefano ha dovuto perdere 18 kg. "Vi do il numero della mia dietologa" ha scherzato in conferenza stampa, ma dalle sue parole si intuisce che una parte del genere segna non solo nel fisico, perché i chilogrammi si riacquistano, ma soprattutto nell'anima.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012