CULTURA

Verso il ’22. Traiettorie di marcia

Comincia oggi un percorso di recupero e rilettura di scritti ‘politici’ - politici in senso lato: anche testi narrativi - scelti con il criterio di fare illustrare agli attori sociali del tempo, mentre lo vivono, il quadriennio 1919-1922: decisivo per tutta la storia d’Italia a venire, Ventennio e dopo Ventennio. Il fascismo  rimane infatti riferimento essenziale anche dopo   che è  caduto. Non era stata una ‘parentesi’, ma un capitolo della storia d’Italia, Un capitolo inventivo, con radici nel passato prefascista e nel futuro postfascista. Ci piaccia o no, le cose stanno così. E andiamo verso un anniversario pesante, quello del 28 ottobre 1922, quando la Marcia su Roma - una dimostrazione armata di decine di migliaia   di squadristi   provenienti da tutta la penisola in treno e in camion - punta sulla capitale e alla fine non si trova di fronte i pur già predisposti reticolati e moschetti dell’esercito. Anzi, il loro capo – che li dirige dal Covo di Milano - si ritrova sbalzato non a San Vittore o a Regina Coeli, ma a Palazzo Chigi.

Non intendo comunicare alcun senso di automatismo. La crisi italiana - strana crisi: il paese è appena uscito vittorioso dalla tremenda prova della guerra - poteva risolversi a sinistra, o al centro-sinistra sulla base dell’entrata in campo dei nuovi partiti di massa, socialisti e popolari, e della nuova legge elettorale proporzionale, che li favorisce; e forse anche – meno probabile – stabilizzando il potere del vecchio partito liberale, al governo dal 1861; oppure con una frattura rivoluzionaria.

Terza precisazione iniziale: contrariamente a una stanca giaculatoria, la storia - intesa come ricostruzione dell’avvenuto - si fa anche coi se. Scelgo dei testi emblematici, che facciano clic: come direbbe il critico, ma possiamo dire anche noi. La fantasia non è peccato. La storia - intesa come avvenimenti – è fatta di bivi e anche di trivi. Ai bivi e trivi, la strada la scelgono gli uomini. Non potevano sceglierne un’altra? Spesso sì, certo che potevano, producendo effetti e conseguenze differenti, innescando altri processi. Non c’era niente di scontato, quando Vittorio Emanuele III decide di non firmare il decreto di stato d’assedio contro i fascisti: visto che il suo governo - un moderatissimo e spaventatissimo governo liberale di notabili, avvocati e professori - lo aveva pur scritto e sottoscritto.

  1. Mussolini: l’articolo smarrito 

Non cominciamo dalla fine. E però non cominciamo neppure dal ’19: ho bisogno di retrocedere a quel che Mussolini (un Mussolini, dei tanti dell’Homme qui cherche, suo nome di penna) scrive in piena rotta di Caporetto. Contrariamente a quel che si sarebbe propensi a pensare, l’ex-direttore dell’”Avanti!”- ed  ex-speranza della sinistra  del  Partito Socialista e in particolare  di giovani, come i prossimi comunisti  Gramsci e Togliatti - non si accoda al  generale Cadorna  che accusa  i  soldati di  tradimento e neppure al socialdemocratico Leonida   Bissolati, che si dispera e legge Caporetto come uno ‘sciopero militare’. Il quotidiano dell’Intervento constata che nella fabbriche si lavora e non si fa Caporetto: il circuito tra il fronte e le città operaie, dunque, non si è chiuso e, se il progetto era questo, esso è fallito.

L’articolo smarrito posto a titolo di questa prima puntata di una marcia verso la Marcia attraverso una selezione di  testi e  voci  d’epoca, esce sul  giornale di Mussolini , “Il Popolo d’Italia”, il 4 novembre 1917, e si chiama - quasi una ventata d’ottimismo e una parola d’ordine controcorrente - Onore agli operai. Il cuore del pezzo è questo: 

Quale delusione per i tedeschi, i quali sognavano lo sciopero generale, la rivolta armata in aiuto dei loro eserciti, un po’ di leninismo anche in Italia! Questo plebiscito di patriottismo da parte della classe operaia è gravido di conseguenze ed è, forse, più importante dei plebisciti stessi di prima del ’70.

Un leader che sembra quasi porsi sul mercato della politica, a mezza strada fra 1915 e 1919, fra quello che era e quello che sarà, ed anche fra opportunismo e autonomia del politico. Certo, denominare “Popolo d’Italia” un quotidiano politico non è come dire “Proletariato d’Italia”; l’articolo ‘ottimista’ da dentro la rotta di Caporetto, il 4 novembre, adombra comunque la possibilità in atto di una patria per gli operai, un nazional-popolare in gestazione. Un nazional-popolare di destra? Siamo nei mesi in cui - è una delle tante volte! - si proclamano esaurite destra e sinistra; e Marinetti o D’Annunzio non sono i soli a sentirsi ‘al di là della destra e al di là della sinistra’.                                                                                       

Questa storia dell’immediato e lettura controcorrente non verrà accolta negli Scritti e discorsi di Benito Mussolini dell’edizione di regime. Perché? Quel Mussolini operaista non c’è più, è diventato un meandro, nel 1934, quando esce il volume che lo dovrebbe contenere. Ce n’erano tante di cose da sottacere o purgare, di quando era stato un rivoluzionario e non parlava di Nazione, ma di Classe e lotta di classe. Ma - in diretta e non in differita - quello del “Popolo d’Italia”, il 4 novembre 1917, è già un socialista redento, interventista e intervenuto. Dunque? Futuribile che non si è dato? Gli operai della Fiat Mirafiori saranno fra le due guerre uno dei pubblici più restii alle seduzioni oratorie del Duce.

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