SOCIETÀ

Reato o no? Dipende (anche) se il movente è culturale

Come deve comportarsi un giudice nel valutare un reato commesso da un imputato di origine straniera, il quale abbia agito sulla base della propria tradizione giuridica, culturale, religiosa? Per questo tipo di illeciti, i giuristi hanno coniato la definizione di “reati culturalmente motivati”: fattispecie dalle quali scaturisce un complesso intreccio di relazioni tra gli ordinamenti del Paese ospitante e di provenienza, tra le circostanze oggettive e l’analisi dell’elemento psicologico e morale soggettivo che ha contribuito a determinare una certa azione. Un recente convegno all’università di Padova ha permesso di analizzare come le decisioni giudiziali, e le motivazioni sottese, si siano evolute in parallelo ai mutamenti socioculturali delle nazioni occidentali, ma anche come il consolidarsi della presenza di folte comunità di immigrati abbia permesso una maggiore comprensione delle loro radici culturali e, di conseguenza, abbia portato a modifiche normative che ne recepiscono, in qualche misura, l’influenza.

L’analisi dei relatori si è concentrata sugli ordinamenti penali di Italia e Germania: sul secondo, in particolare, si è soffermata Silvia Tellenbach (Istituto Max Planck di Freiburg im Breisgau), che ha ricordato come l’esigenza, per i tribunali tedeschi, di risolvere casi legati a tradizioni e culturali differenti si sia posto a partire dalla metà degli anni ’60: i primi fenomeni di forte immigrazione turca e curda hanno messo giudici e studiosi di fronte a delitti nella sfera familiare e sessuale che si fondavano su valori e, a volte, su precise norme della nazione di origine. Valori e norme che, è bene rammentarlo, differiscono moltissimo nel tempo e nello spazio: così, ad esempio, il concetto di “delitto d’onore” ha un contenuto ben diverso tra gli italiani prima degli anni ’80 (quando era l’adulterio ad attenuare la gravità dell’omicidio del congiunto) e tra gli immigrati turchi nella Germania di oggi (l’omicidio di una familiare, nel caso considerato, è motivato da suoi semplici comportamenti pubblici “disinvolti” o pettegolezzi sul suo conto: configurando così una situazione moralmente inaccettabile, secondo il sistema di valori tradizionali del reo). Nel tempo mutano anche i criteri della Cassazione tedesca: se fino alla metà degli anni ’90 il contesto culturale di provenienza dell’imputato poteva, in alcuni casi, frenare l’applicazione delle aggravanti, in seguito si consolida un orientamento che valuta esclusivamente in che misura il colpevole potesse, al momento del crimine, comprendere la gravità del suo reato: si considera, cioè, il livello di integrazione nel Paese ospitante dell’immigrato, e quanto questi sia in grado, di conseguenza, di percepire l’effettiva distanza tra norme e valori della sua tradizione e quelli dello Stato in cui si è trasferito. Una valutazione che tiene conto, dunque, solo del grado di comprensione del cambiamento del sistema giuridico-sociale di riferimento che l’imputato ha vissuto; senza, però, che abbia alcuna rilevanza il giudizio personale dell’imputato in merito, ossia quanto concordi o dissenta dai nuovi valori tipici del Paese che lo ospita. 

È progressivo anche il venir meno, nella giurisprudenza tedesca, delle attenuanti per casi di matrimonio forzato o stupro coniugale, fattispecie legittime secondo alcuni ordinamenti di tradizione islamica. Proprio sul matrimonio imposto, del resto, la valutazione è condotta soprattutto sulle sue finalità e modalità: per considerarne il grado di rilevanza penale si ha attenzione, oltre che al fatto in sé, soprattutto alla presenza di minacce o percosse per estorcere il consenso alle nozze. Ha creato dilemmi anche la pratica della circoncisione: dopo alcune pronunce che si richiamavano al rispetto della libertà religiosa ed altre che, al contrario, la configuravano come lesione dell’integrità fisica, il diritto tedesco si è consolidato regolamentandone la tecnica (è obbligatorio il ricorso a un medico) e avendo attenzione, ancora una volta, all’assenza della finalità di danneggiare la persona sottoposta a circoncisione (simili oscillazioni si sono osservate, nel tempo, per le mutilazioni genitali femminili, oggetto alla fine di un esplicito divieto normativo). Si colloca in posizione estrema una sentenza in tema di omissione di soccorso: il fatto che, all’interno di una comunità pakistana, un vicino di casa non presti aiuto a una donna gravemente ferita dal marito nel corso di un litigio, viene giudicato errore inevitabile dell’imputato, perché una “intromissione” nei contrasti coniugali tra estranei (unita al timore per la reazione del marito della vittima) è reputata incompatibile con la cultura d’origine dell’imputato.

All’ordinamento italiano e alla sua evoluzione riguardo ai reati “culturali” si è dedicato invece Fabio Basile (università di Milano). Il giurista ha ricordato come, prima che diventassero terre d’immigrazione, molti Stati dell’Europa occidentale (Italia in primis) conoscessero vari casi di reati culturalmente motivati: dal delitto d’onore allo stupro seguito da matrimonio riparatore, dalla violenza sessuale coniugale allo “ius corrigendi”, che legittimava atti violenti nei confronti dei congiunti. Sono molti, secondo Basile, i criteri in base ai quali si individuano i reati causati da tradizioni culturali: accanto alle norme religiose o giuridiche (quando la distinzione sussista) in vigore nello Stato di provenienza dell’immigrato, si deve valutare il bene giuridico danneggiato (che può essere, ad esempio, la sicurezza collettiva nel caso di vestiti tradizionali che non consentano l’identificazione di chi li indossa o implichino un porto abusivo di armi, come i pugnali sikh). Rilevante è anche l’analisi della biografia dell’imputato, per valutarne il grado di integrazione con la cultura d’accoglienza. Se poi si giudica quanto un comportamento sia influenzato dalle norme del Paese di provenienza, è necessario distinguere quanto queste siano considerate vincolanti dall’imputato, quanto siano effettivamente popolari e diffuse o, al contrario, discusse o contestate anche nell’ambiente culturale di origine dell’immigrato. E se è vero che la tutela dei diritti essenziali della persona deve sempre prevalere, Basile rimarca come alcune sentenze abbiano visti assolti gli imputati anche su questioni delicate come la mutilazione genitale femminile (mancava, secondo il giudice, la finalità di menomare la sessualità della vittima) o lo stupro coniugale (anche qui il giudice ha ritenuto assente il dolo perché, nell’ordinamento di provenienza dell’imputato, il comportamento non aveva rilievo penale).

Su temi di tale complessità rimane l’impressione che l’equilibrio perseguito dai giudici sia fragile e in costante evoluzione: dinamico quanto i cambiamenti etnici e sociali in corso nelle nazioni contemporanee, delicato quanto la barriera, mobile e sottile, che separa la tutela delle vittime e le garanzie per gli imputati, la morale collettiva del momento e la necessità di integrare, gradualmente, i nuovi arrivati.

Martino Periti

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