SCIENZA E RICERCA
La Terra raccontata dai diamanti
C’è chi aspetta una vita per avere un piccolo diamante al dito e chi nella quotidianità del proprio laboratorio maneggia abitualmente carati su carati. È quello che avviene all’università di Padova nel gruppo di Fabrizio Nestola, finito questo mese sulla copertina di Science con altri scienziati per aver classificato una nuova categoria di diamanti che apre prospettive inedite sui processi geologici terrestri.
Nestola lavora da tempo in questo campo nel dipartimento di Geoscienze. Nel 2012 vince un finanziamento dell’European Research Council di quasi un milione e mezzo di euro per dedicarsi per cinque anni al progetto Indimedea (Inclusions in Diamonds: Messengers from the Deep earth), allo scopo di determinare i meccanismi di formazione dei diamanti attraverso l’analisi delle sostanze rimaste intrappolate al loro interno, come minerali e fluidi di varia natura. Queste, dette in gergo tecnico “inclusioni”, sono infatti gli unici campioni diretti e inalterati – poiché protetti dal diamante chimicamente inerte – che si possiedono del mantello terrestre profondo sotto la crosta. Sono dei “messaggeri” che danno l’idea di “cosa ci sia” e “cosa accada” alla profondità di 150-700 chilometri. In pratica si esamina la chimica, e quando possibile la struttura, delle inclusioni per dedurre la chimica e la struttura profonda della Terra.
A conoscenza degli studi che il gruppo di Nestola svolge a Padova e in virtù anche di una collaborazione esistente, il Gemological Institute of America (Gia) contatta il docente proponendogli di studiare una categoria di diamanti super profondi e super giganti che possono raggiungere anche i 3.000 carati, come il Cullinan o il Lesotho Promise, talmente rari e costosi da non essere mai stati esaminati finora dal punto di vista scientifico. “I diamanti – spiega lo studioso – si dividono in due grandi categorie: i diamanti litosferici che si formano tra i 120 e i 250 chilometri di profondità e quelli super profondi che invece hanno origine tra i 300 e i 1000 chilometri di profondità. Questi sono più rari, rappresentano solo il 6% della popolazione mondiale di diamanti e dunque sono campioni difficili da ottenere”.
Forte dunque di questa opportunità e della nuova strumentazione di cui è dotato il laboratorio di Nestola, acquisita grazie al finanziamento Erc, il gruppo si mette al lavoro ed esamina 53 diamanti di dimensioni variabili fino a oltre 30-35 carati. Risultato: all’interno dei diamanti sono state riscontrate sostanze molto rare, mai viste prima e cioè leghe di ferro-nickel, solfuri e carburi di ferro. Fatto ancora più sorprendente, tali inclusioni sono completamente circondate da un fluido costituito da metano e idrogeno.
A questo punto l’indagine porta con sé alcune implicazioni. Innanzitutto permette di classificare una nuova categoria di diamanti, super giganti e super profondi, che si formano tra i 360 e i 750 chilometri di profondità e che d’ora in poi saranno denominati “Clippir”.
In secondo luogo, lo studio apre un nuovo scenario sui processi geologici che possono avvenire alle grandi profondità del nostro pianeta. Aver individuato infatti all’interno dei diamanti Clippir leghe di ferro-nickel, solfuri e carburi di ferro, che fino a questo momento si ipotizzava avessero origine nel nucleo terrestre da circa 2.900 chilometri di profondità, dimostra invece che ferro metallico liquido potrebbe formarsi in regioni ben lontane dal nucleo a profondità non superiori ai 1.000 chilometri.
La ricerca, infine, conferma i risultati di uno studio pubblicato su Nature due anni fa che vede Nestola tra gli autori. Allora era stato descritto un frammento molto piccolo di ringwoodite, rinvenuto per la prima volta all’interno di un diamante super profondo proveniente dal Brasile, che mostrava un significativo contenuto di acqua. Questo aveva fatto supporre che la quantità di acqua presente all’interno del nostro pianeta (tra i 410 e i 660 chilometri di profondità) fosse tre, quattro volte superiore a quanto si era ritenuto fino a quel momento. La scoperta fino ad oggi non aveva avuto alcuna conferma, mentre ora la ricerca pubblicata su Science avvalora quelle ipotesi e dimostra la presenza di idrogeno a grandi profondità nella Terra.
La cosa interessante ora, osserva Nestola, sarebbe capire l’origine dell’idrogeno contenuto all’interno dei diamanti, perché ciò significherebbe entrare nel dettaglio della storia del nostro pianeta. Un po’ come si è fatto nell’ultimo anno con le comete. Questi diamanti sono molto antichi e possono risalire anche a 3,6 miliardi di anni fa. Dunque, verrebbe da chiedersi, quell’idrogeno è di origine primordiale o no? Possono esistere varie ipotesi, osserva il docente. L’idrogeno potrebbe derivare dall’acqua superficiale terrestre e, una volta arrivato in profondità, rimanere intrappolato nel processo di formazione dei diamanti: in questo caso si dovrebbe ammettere che la Terra già 3,6 miliardi di anni fa avesse acqua in superficie. Una seconda possibilità è che l’idrogeno fosse già presente nei materiali che hanno costituito il nostro pianeta, eventualità che si potrebbe verificare soltanto studiando gli isotopi dell’idrogeno e dunque una strada ancora tutta da percorrere.
Monica Panetto