IN ATENEO
Terremoti che generano tsunami: ecco perché si rompe il fondale oceanico
È stato pubblicato su Nature Geoscience una ricerca che vede tra i firmatari il professor Giulio Di Toro del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova in cui si studiano i terremoti che generano tsunami.
I terremoti sono il risultato della propagazione di una rottura lungo una superficie che attraversa la crosta terrestre chiamata faglia. La propagazione della rottura consente ai blocchi di roccia a lato della faglia di spostarsi l'uno rispetto all'altro anche di decine di metri nel caso di terremoti eccezionalmente grandi (magnitudo 9.0). In genere, i terremoti che producono tsunami si distinguono da quelli che interessano la crosta continentale, come i recenti terremoti di Amatrice e Norcia del 2016, per avere velocità di propagazione della rottura più lenta (1-2 km/s) rispetto agli altri terremoti (2-4 km/s) ciò per consentire grandi spostamenti dei blocchi di faglia in prossimità della superficie, il fondale marino in questo caso.
L'articolo riguarda la dinamica di propagazione, durante grandi terremoti (magnitudo maggiore di 7.0), di rotture sismiche lungo faglie dalla profondità dove nasce il terremoto (circa 15-35) fino al fondale marino.
Fino a pochi anni fa, si pensava che le rotture sismiche non fossero in grado di propagarsi attraverso i più superficiali e soffici sedimenti marini ricchi in argilla. Gli scienziati ritenevano che le dislocazioni prodotte dal terremoto fossero trascurabili in questi ambienti. Inoltre, non era stata presa in considerazione la presenza in questi sedimenti di strati non consolidati dallo spessore di decine fino a centinaia di metri composti da gusci calcarei di microrganismi marini. Infatti, basandosi su esperimenti che però non riproducevano fedelmente le straordinarie condizioni di deformazione tipiche di un terremoto, si riteneva che il coefficiente di attrito di questi materiali aumentasse con la velocità di scivolamento lungo una faglia arrestando la rottura prima che questa arrivasse a rompere il fondale marino.
Ma non è così, il grande terremoto di Tohoku (magnitudo 9.0) e conseguente tsunami che ha inondato la costa settentrionale dell'arcipelago Giapponese l'11 marzo del 2011 ha messo in discussione questa interpretazione.
Evidenze sismologiche, geofisiche e geologiche hanno dimostrato che in questo terremoto la rottura si è propagata fino a rompere il fondale oceanico con conseguenze devastanti. La rottura del fondale oceanico è associata all'innalzamento, anche di alcuni metri per grandi terremoti, del fondale stesso e la conseguente energizzazione della colonna d'acqua marina sovrastante. Poiché in zona di fossa oceanica la colonna d'acqua è di diversi chilometri di altezza, il sollevamento del fondale in questi particolari ambienti oceanici comporta la generazione di imponenti e violentissime onde di tsunami, alte fino a 20-30 metri (un palazzo di dieci piani) quando queste si infrangono sulla costa come nel caso del terremoto di Tohoku.
Ma perché le rotture sismiche riescono a propagarsi in questi sedimenti e produrre grandi dislocazioni? La ricerca unisce dati da perforazione di fondali oceanici effettuati nel Pacifico in prossimità della fossa che costeggia il Costa Rica in America Centrale (progetti Integrated Oceanic Discovery Programme) a esperimenti condotti in Italia su sedimenti marini composti da argille e gusci di microrganismi marini campionati durante la perforazione.
“Solitamente si testano dei materiali, a volte miscelati in laboratorio, e si elabora un’ipotesi della situazione geologica che ne può derivare. Nel nostro caso - dice Paola Vannucchi - abbiamo pensato che il megathrust - il limite di placca nelle zone di subduzione - si imposta nei sedimenti ricchi in argilla che sono i più deboli lungo tutto lo spettro delle velocità di dislocamento. In realtà il quadro geologico contraddice questa ipotesi e ci ha spinto ad approfondire aspetti che altrimenti avremmo tralasciato. Le zone di subduzione generano i terremoti più violenti, magnitudo sopra 8.5, spesso associati a tsunami e ogni anno rilasciano globalmente più dell’80% dell’energia sismica. Sappiamo che i fattori che contribuiscono all’attività sismica di un megathrust sono molti e questi riguardano soprattutto la composizione e la natura dei sedimenti e rocce coinvolti, i fluidi che circolano in questi materiali, la loro variazione di temperatura. Ma quello che non sappiamo è come questi fattori effettivamente interagiscono lungo la faglia che separa le due placche. I campioni provenienti dalla Costa Rica gettano una nuova luce su come questi parametri regolino il comportamento sismico della faglia in una zona critica, quella più vicina al fondo oceanico. Nei materiali composti da gusci organici, il coefficiente di attrito è risultato straordinariamente basso: la presenza di questi sedimenti nelle fosse oceaniche agevolerebbe la propagazione della rottura durante grandi terremoti”, sottolinea Paola Vannucchi. “Abbiamo quindi testato il materiale nei laboratori trovando conferma alla nostra ipotesi. Inoltre il materiale oggetto di studio si trova in quasi metà del fondale oceanico ed è attualmente subdotto in America Centrale, la parte settentrionale dell’America Meridionale (come riportato in figura 1 dell’articolo), ma anche in Oceano Indiano e nel Pacifico sud-occidentale. Anche se alcune zone non sono state campionate i carbonati pelagici biogenici sono certamente molto comuni. Quindi a parità di litotipo e di condizioni tettoniche, le proprietà di questo materiale potrebbero essere le stesse, anche se bisogna considerare l’intera successione sedimentaria in subduzione e questo può essere fatto solo attraverso il campionamento diretto di questi sedimenti: per questa ragione la ricerca sta continuando con campioni provenienti dall’Oceano Indiano e dalla Nuova Zelanda. Questo tipo di ricerca, che richiede strumenti capaci di raggiungere le zone più profonde degli oceani - zone che conosciamo meno della superficie di Marte - rappresenta una delle sfide più importanti per le Scienze della Terra e viene portata avanti da un programma internazionale (IODP) al quale l’Italia partecipa attraverso il consorzio europeo per la ricerca scientifica sottomarina (ECORD)”.
Gli esperimenti sono stati effettuati con SHIVA (Slow to High Velocity Apparatus), un apparato sperimentale con la potenza di 300 kW (equivalente alla potenza dissipata da 100 appartamenti medi italiani) che viene immessa in provini di roccia delle dimensioni di un piccolo bicchiere del diametro di 50mm. SHIVA è il più potente simulatore di terremoti al mondo. SHIVA dispone di due motori elettrici tipo brushless in grado di imporre straordinarie accelerazioni pari a numerose volte quella di gravità, spostamenti di decine di metri nel caso di terremoti molto grandi e pressioni come quelle che può esercitare una colonna di roccia dall'altezza di diversi chilometri che sono tipiche di un grande terremoto. Nel caso di esperimenti condotti su rocce intere gli effetti sono impressionanti con fusioni delle stesse in pochi secondi tali da produrre vetri sismici molto simili se non identici a quelli che i geologi trovano in alcune faglie naturali. Gli esperimenti descritti sono stati effettuati con dei portacampioni particolari per impedire l'estrusione del materiale granulare e misurare il coefficiente di attrito. SHIVA, installato nel 2009 nel Laboratorio Alte Pressioni - Alte Temperature di Geofisica e Vulcanologia Sperimentali dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Roma, è stato progettato e costruito in Italia grazie alla collaborazione tra INGV e Università di Padova che ha contribuito al reperimento dei fondi, attraverso due progetti ERC e fornendo sostegno nella parte progettuale e negli studi microstrutturali.
“Questo potente apparato sperimentale serve, insieme ad altre attività di ricerca - studi di terreno per descrivere l'architettura della faglie naturali, analisi di laboratorio dei prodotti di faglia naturali e sperimentali per capire i processi fisici responsabili dei terremoti e modelli numerici di simulazione di propagazione di rottura durante i terremoti per verificare la validità delle osservazioni sperimentali - per comprendere la meccanica dei terremoti - afferma Giulio Di Toro, responsabile del progetto di ricerca dell’Unione Europea NOFEAR - La ricerca ha svelato i processi fisici che consentono a un terremoto di generare uno tsunami per sollevamento del fondale marino. Abbiamo capito l’importanza di questi sedimenti calcarei nella spiegazione di un avanzamento di una rottura sismica. Il comportamento fisico del materiale studiato può spiegare alcune caratteristiche di zone di subduzione meno studiate. Tuttavia con una mappatura dei sedimenti in prossimità delle zone di subduzione e una caratterizzazione del materiale che viene tagliato dai megathrust in superficie si potrebbe pensare alla costruzione di una mappa di pericolosità soprattutto per individuare zone che possono essere soggette a tsunami earthquakes. Certamente si può costruire una mappa delle caratteristiche fisiche e di risposta dei sedimenti/rocce alla nucleazione e propagazione di un terremoto. Tuttavia bisogna sempre considerare che i sedimenti oceanici sono estremamente diversi da area ad area e frutto di processi che si incrociano con il clima e l’oceanografia”.
“Questa ricerca - conclude Elena Spagnuolo, ricercatrice dell’INGV - tenta di svelare i possibili processi fisici che consentono a un terremoto di generare uno tsunami per sollevamento del fondale marino. In considerazione del fatto che questi sedimenti calcarei sono abbastanza comuni nelle fosse oceaniche e che, in base all'evidenza sperimentale, la loro presenza agevola la propagazione di una rottura sismica fino a rompere il fondale marino, si pensa che questo fenomeno possa essere molto frequente”.