SCIENZA E RICERCA
Il topo che ha “sconfitto” l’invecchiamento
Foto: Francesco Cocco/contrasto
Si chiamano “cellule senescenti”. Non lavorano più, non sono più in grado di riprodursi, ma rifiutano di morire, si accumulano nell’organismo e causano danni alle sorelle più giovani e attive. Da almeno 50 anni sono considerate come una delle cause dell’invecchiamento. Ma, finora, nessuno era riuscito davvero a provarlo. Con un articolo pubblicato su Nature lo scorso 3 febbraio, Jan M. van Deursen, del Mayo Clinic College of Medicine, di Rochester, nel Minnesota, assieme a un gruppo di suoi collaboratori, ha annunciato che se si riesce ad eliminare le “cellule senescenti”, aumentano sia la qualità della vita sia la vita media, di un buon 25%.
Ma non illudiamoci più di tanto. I risultati del trattamento riguardano, almeno per ora, solo i topi. Le “cellule senescenti” sono note, come abbiamo detto, da tempo. E sono associate a malattie come il diabete, alcune patologie del fegato e molti tipi di tumore. Quelle senescenti sono cellule che hanno smesso di avere una funzione fisiologica, che non si riproducono più e che sono poco suscettibili all’apoptosi, ovvero alla morte programmata. Così, nel tempo, si accumulano nell’organismo. Tuttavia non se ne stanno lì buone e innocue. Anzi sono considerate dannose perché producono SASP (Senescent Associated Secreted Proteins), ovvero delle proteine con cui mandano messaggi alle cellule che le circondano, ma anche a quelle del sistema immunitario. Le SASP non si limitano a portare messaggi, ma alterano il buon funzionamento delle altre cellule sane. E - questa è l’ipotesi - accelerano l’invecchiamento dei tessuti e dell’organismo di cui sono parte.
Ecco perché Jan M. van Deursen e i sui colleghi hanno pensato di inserire nel genoma di un topo un gene, che codifica per la proteina p16Ink4a, capace di indurre l’apoptosi delle cellule senescenti quando attivato da un farmaco: l’AP20187. Il gruppo ha così iniettato l’AP20187 due volte la settimana nei loro topolini transgenici una volta raggiunta l’età di un anno. E, a quanto pare, è stato un successo. Perché si è determinata l’eliminazione delle cellule senescenti nelle cavie, che hanno così visto non solo aumentare di un quarto la loro vita media, ma anche diminuire la frequenza di alcune malattie, tra cui quelle al fegato e molti tumori. Insomma, i topolini hanno vissuto di più e meglio.
Il massimo, che si potesse sperare. E tuttavia ci sono almeno due motivi per non illuderci più di tanto. Il successo, infatti, è stato parziale. Come fanno notare, sempre su Nature, Jesús Gil and Dominic J. Withers, due biomedici in forze all’Imperial College di Londra, l’AP20187 sembra essere piuttosto selettivo. Facilita l’apoptosi delle cellule senescenti “ultime arrivate”, quelle che producono molto p16Ink4a, ma non delle altre. Inoltre il trattamento non funzione contro linfociti e cellule senescenti del fegato e del colon. Inoltre le due iniezioni settimanali nell’addome non fanno bene ai topolini. In soggetti di controllo cui sono state effettuate le due iniezioni, ma senza il farmaco, si sono viste riduzioni della vita media. Insomma, il modo di somministrare il farmaco sembra annullare in parte effetti gli effetti positivi, che sarebbero maggiori se si trovasse un altro modo meno invasivo per inoculare il farmaco. Infine se il trattamento determina un aumento della vita media e la riduzione di alcune patologie, sembra non avere effetto alcuno su altri caratteri tipici dell’invecchiamento, come le capacità motorie, la forza muscolare e la memoria.
Dunque non è stato scoperto l’elisir di lunga vita, ma solo un farmaco che può lenire la vecchiaia. Nei topi. Perché, poi, questo è il punto. Non è detto che quello che funziona sui piccoli roditori funzioni anche sull’uomo. Non è la prima volta che su organismi animali si riesce ad agire sul genoma e si ottiene un allungamento della vita. Ma l’organismo umano è molto più complesso rispetto a quello di questi animali modello. Talvolta le patologie e le terapie per contrastarle sono le stesse, altre volte no. Soprattutto quando le patologie sono multifattoriali. Ed è il caso dell’invecchiamento, ammesso e non concesso che l’ageing sia assimilabile a una malattia.
In realtà noi non sappiamo ancora se e in che misura l’ageing, il nostro processo di senescenza, sia geneticamente controllato. Né sappiamo quanto e come su di esso incidono i fattori ambientali e gli stili di vita. Probabilmente l’ageing è la somma di una serie di meccanismi che contribuiscono al declino del nostro fisico e/o della nostra mente e che, poi, portano alla morte.
Di certo l’età media delle persone si è allungata in questo ultimo secolo. Ma, a quanto pare, non è aumentata - non in maniera significativa - l’età massima cui può giungere un uomo, che raramente si spinge oltre i cento anni. Il limite massimo attuale è strutturale o è contingente? Difficile dirlo.
Certo, oltre che a vivere di più dovremmo tendere a vivere meglio i nostri anni senili. E, in questo caso, i fattori ambientali e sociali non sono meno importanti dei fattori biologici.
Pietro Greco