UNIVERSITÀ E SCUOLA

Una virgola da 10 milioni di dollari

Ibis redibis non morieris in bello”: chissà se i manager della Oakhurts Dairy, una compagnia di Portland che rischia di dover pagare 10 milioni di dollari ai suoi camionisti per l’assenza di una virgola nella legge del Maine che regola gli straordinari, conoscono il famoso vaticinio che, secondo il Chronicon (1232-41) del monaco cistercense Alberico delle Tre Fontane, un antico e imprecisato oracolo recitava al soldato che lo interrogava sul proprio destino. Sentenza ambigua, come si addice agli oracoli, e, in virtù dell’assenza di una pausa chiara (e del corrispondente segno d’interpunzione), sottratta a qualunque smentita, che il soldato sopravvivesse (“ibis, redibis, non morieris in bello”, cioè “andrai, tornerai, non morirai in guerra”) o meno (“ibis, redibis non, morieris in bello”: “andrai, non tornerai, morirai in guerra”): e che per questo una volta si insegnava a scuola per simboleggiare l’importanza della punteggiatura.

La vicenda della Oakhurts, riportata da Daniel Victor sul New York Times del 16 marzo scorso (Lack of Oxford comma costs Maine company millions in overtime dispute) è la seguente: nel 2014 tre autotrasportatori della compagnia hanno promosso una class action per vedersi riconosciuto il sovraprezzo di tre anni di straordinari, per i quali la legge del Maine prescrive un salario orario maggiorato del 50% rispetto a quello base, ma che la Oakhurts aveva negato appellandosi alle eccezioni previste dalla medesima norma, che riguardano gli addetti ai processi di “lavorazione, conservazione, congelamento, essiccamento, immagazzinamento, inscatolamento per spedizione o distribuzione di prodotti agricoli, carne e pesce, e cibo deperibile”. Ma per il tribunale l’ultima ipotesi, o distribuzione, in quanto non preceduta da virgola, è interpretabile come in alternativa alla spedizione come precisazione della finalità dell’inscatolamento (in analisi logica, un complemento di fine coordinato al precedente), e non all’intera serie delle suddette mansioni, per cui l’esenzione dell’aumento orario di salario straordinario non è applicabile ai camionisti ricorrenti, che lavorano alla sola distribuzione, e non all’inscatolamento a quella finalizzato: da qui la condanna per l’azienda a pagare l’ingente somma.

De te fabula narratur: perché il caso può apparire estremo, lontano e persino capzioso, ma, se si vuole uscire dall’aneddoto, esso suscita alcune considerazioni più generali che riguardano anche noi.

La prima concerne la qualità della scrittura delle leggi, che neanche in Italia brillano per chiarezza e comprensibilità, come segnalano da tempo non solo illustri linguisti, ma persino il Rapporto del Comitato per la legislazione della stessa Camera dei Deputati del 2014, che ha valutato la nostra produzione legislativa “di difficile interpretazione” e “non sempre curata nella formulazione” (cfr., anche per una bibliografia essenziale, Matteo Viale, Quale italiano per le leggi?); gli uni e l’altro purtroppo inascoltati, a giudicare dai numerosissimi e annosi contenziosi che ingolfano la giustizia e persino la vita politica italiana, da ultimo quello sull’interpretazione dell’articolo della cosiddetta “legge Severino” che regola la decadenza dei parlamentari in caso di sopravvenuta sentenza di condanna definitiva, in cui non è detto chiaramente se la camera competente deve solo prendere atto o può esprimere un libero parere.

La seconda considerazione – ovvia ma non meno importante – riguarda l’importanza della punteggiatura, che invece appare oggi la vittima insieme prima e trascurata (quasi si trattasse di un avamposto fuori tempo e indifendibile) nella clamorosa Caporetto delle competenze linguistiche che sta coinvolgendo tutta la lingua italiana in generale, e che è stata di recente oggetto di polemica pubblica, con tanto di appelli e contrappelli. Chiunque abbia esperienza diretta delle scritture dei nostri giovani, spesso anche dei migliori, ha d’altronde dimestichezza con fenomeni quali la virgola tra soggetto e verbo (non certo a fini espressivi), la mancata chiusura di incisi ed incidentali o l’uso idiosincratico dei due punti: sicché l’asse più coinvolto dalla catastrofe culturale pare proprio quello sintagmatico cui i sistemi linguistici affidano la costruzione dei rapporti logici e gerarchici fra le parti del discorso. Le quali, senza un’adeguata punteggiatura, assomigliano sempre più alle parole di un altro oracolo, quello della sacerdotessa di Apollo della colonia ionica di Cuma, resa famosa da Virgilio come guida di Enea agli Inferi, i cui responsi venivano scritti su foglie la cui gerarchia “sintattica” era (dis)ordinata dal vento, come ricorda Dante nell’ultimo canto del Paradiso per significare il dileguarsi nel ricordo della sua visione della Divinità: “Così la neve al sol si disigilla;/ così al vento ne le foglie levi/ si perdea la sentenza di Sibilla”.

Già, perché i nostri antenati romani, coerentemente con la loro attitudine “procedurale”, avevano messo nero su bianco anche gli oracoli, nei Libri sibillini, che erano sì oscuri, generici e adatti a più circostanze, ma pur sempre scritti: sicché la loro “oracolarità” passava dalla forma cristallizzata della scrittura. Il che ci induce ad un’ultima suggestione: abbiamo imparato a scuola che dalla notte dei tempi la scrittura delle leggi è stata una conquista a tutela dei più deboli contro l’arbitrio dei potenti, che tendono semmai ad aggirarle con l’aiuto di cavilli, interpretazioni capziose e avvocati legulei, di cui il manzoniano Azzecca-garbugli è perfetta esemplificazione. Il caso “camionisti contro la Oakhurts Dairy” ci presenta invece una circostanza opposta: nella quale, in presenza di una volontà penalizzante del legislatore, la parte debole sfrutta, ai fini del riconoscimento del diritto, una crepa linguistica, un interstizio del sistema, l’anello che non tiene; e quando i giudici le danno ragione per una virgola, vien da pensare che, a fronte di leggi che sempre più registrano i mutati rapporti di forza tra capitale e lavoro, per affermarsi essa debba affidarsi alle sentenze come ad un oracolo. Per una volta fausto: ibis, redibis, non morietur in bello.

Attilio Motta

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