SOCIETÀ
Arendt, una refugee? Come apolidi ed esuli, sono alcuni di noi ma riguardano tutti
Foto: Contrasto/Emanuele Satolli
L’apolidia è una condizione individuale connessa alla progressiva occupazione di ogni lembo di spazio terrestre da parte di organizzazioni umane statuali, muovendosi o per terra o per mare non c’è più anfratto o spiaggia liberi, si passava e si passa da una condizione di puntuale cittadinanza all’altra (che molto può far attendere) ma, se si perde la cittadinanza di origine, appunto c’era e c’è purtroppo la fase di attesa spesso lunga dell’eventuale legittimazione di transito o cittadinanza di arrivo. Le cittadinanze contemporanee di un individuo umano possono pure essere più di una, in relazione alle varie differenti normative di ogni paese. O, dunque, nessuna!
Se non si è un sapiens attribuibile a un qualche paese, si è apolidi, nessuno Stato ti considera suo cittadino, non si “appartiene” a nessuno Stato (e ai connessi intreccio di diritti e doveri); una condizione che diventa una permanente identità e può anche essere trasmessa ad altri, quando si è figli di apolidi, oppure quando non si può comunque ereditare la cittadinanza dei genitori, oppure quando si entra solo a far parte di un gruppo sociale cui è negata la cittadinanza per una discriminazione. Con l’obiettivo di porre generale fine all’apolidia entro il 2024 l’Unhcr, il Commissariato ONU per i Rifugiati, ha lanciato una sacrosanta campagna internazionale fin dal 4 novembre 2014. Auspicabile ma difficile che il successo possa essere pieno e definitivo: gli “invisibili” sono tanti!
Il numero esatto di sapiens apolidi a livello mondiale è, ovviamente, tuttora sconosciuto. L’Unhcr ha stimato che fossero circa dieci milioni (senza casa o lavoro ufficiali, pertanto), di cui un terzo minori, bambini e bambine (senza salute e scuola garantiti, pertanto). Chiesto ai vari Stati di censire la situazione, finora solo 76 paesi hanno comunicato dati all’Unhcr, che complessivamente riguardano almeno 4,2 milioni certamente apolidi nel mondo (in base all’ultimo rapporto del 2022, riferito al 2021). Una delle principali difficoltà incontrate nell’adempiere il mandato di prevenzione e riduzione dell’apolidia e, comunque, di protezione delle persone apolidi risiede nella mancanza di statistiche affidabili che identifichino il numero effettivo e individuino pure coloro che sono esposti al rischio, visto che spesso versano in condizioni di vita legate a contesti di precarietà e marginalità. In Italia se ne stimano alcune migliaia.
Ovviamente, la condizione di apolide non è solo moderna e contemporanea, in vario modo è connessa pure all’essere “stranieri” e a come storicamente gli “immigrati” sono stati accolti in luoghi istituzionalizzati in cui si contabilizzino entrate e uscite: villaggi e poi agglomerati urbani (non a caso apolide viene dal greco, “senza città”), contee o marche o feudi o regioni o popoli o civiltà o altro, comunque si siano chiamate o siano state definite le comunità umane stanziali. Certo, risulta provato ed evidente che una certa globale diffusa apolidia emerga soprattutto come una delle conseguenze della (abbastanza recente) divisione concordata di tutto il mondo in stati sovrani: la struttura delle nazioni unite.
La condizione di apolidia è individuale ma indipendente dalla volontà dell’individuo. Può essere determinata principalmente dalle seguenti circostanze: si è profughi a seguito di guerre o occupazioni militari; per motivi politico-istituzionali, lo Stato di cui si era cittadini si è dissolto e ha dato vita a nuove entità nazionali (ex URSS, ex Jugoslavia…); esistono e persistono conflitti nella legislazione tra Stati; (come detto) si è figli di apolidi , si è impossibilitati a ereditare la cittadinanza dei genitori, si è parte di un gruppo sociale cui è negata la cittadinanza sulla base di una discriminazione.
La prima convenzione delle Nazioni Unite che si è occupata dello “statuto” degli apolidi risale al 28 settembre 1954, entrata in vigore il 6 giugno 1960: la seconda si è occupata della necessità di “ridurne” progressivamente il numero risale al 30 agosto 1961, entrate in vigore il 13 dicembre 1975: ogni Stato dovrebbe conseguentemente garantire agli apolidi misure di protezione. Entrambe le convenzioni Onu sono operative, pur se non tutti le hanno ancora ratificate (la prima circa 100, la seconda circa 85 paesi). L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la prima attraverso la legge del primo febbraio 1962 e la seconda soltanto con la legge del 10 settembre 2015 (dopo innumerevoli solleciti e l’avvio della campagna di sensibilizzazione Unhcr dal 2011).
L’obbligo di protezione implica di dovere preventivamente identificare le persone presenti sul proprio territorio senza cittadinanza e, a questo fine, alcuni paesi si sono dotati di procedure per la determinazione dello status di apolide. L’Italia ha istituito già da tre decenni un conseguente percorso per il riconoscimento dello status di apolidia, esperibile in via amministrativa (o altrimenti giudiziaria). La procedura per la certificazione è disciplinata dall’art. 17 del D.P.R. n. 572/93 “Regolamento di esecuzione della legge 91/92”, competenza del Ministero dell’Interno, Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione. Nel settembre 2012, l’Unione Europea e i suoi Stati membri hanno proclamato dinanzi al Segretario Generale delle Nazioni Unite il loro impegno solenne ad intraprendere azioni per combattere il fenomeno dell’apolidia attraverso l’implementazione degli strumenti internazionali in materia di protezione, riduzione, prevenzione. Negli ultimi tre anni, un importante numero di paesi ha riformato o istituito le relative procedure, con effetti anche sulla cittadinanza europea.
Gli apolidi hanno da sempre dato un importante visibile contributo alle comunità umane, esistenziale culturale scientifico, loro riconosciuti o meno. Gli esempi possibili sono tanti. Una delle principali filosofe del Novecento è stata apolide per oltre un quarto della propria vita e in quei 18 anni ha scritto e presentato eccelse riflessioni. Parliamone. L’occasione è una pubblicazione recente la splendida operazione editoriale promossa e presieduta dall’insigne filosofa italiana Donatella Di Cesare (Roma, 1956), proprio per celebrare la straordinaria personalità di Hannah Arendt (1906 - 1975): Hannah Arendt, Noi rifugiati, traduzione, illustrazione e cura di Donatella Di Cesare, Einaudi Torino 2022 (originale gennaio 1943), pag. 100 euro 12.
Hannah Arendt restò apolide per diciotto anni, dopo che lo Stato nazionalsocialista le aveva tolto la cittadinanza e prima di ottenere la cittadinanza americana l’11 dicembre 1951; era fra i primi ebrei non religiosi a essere perseguitati; se qualcuno li salvò non potevano che sentirsi umiliati, se qualcuno li aiutava si sentivano degradati; fuori dalla Germania, dopo essere stati imprigionati perché erano tedeschi, non furono liberati perché erano ebrei. Il suo testo fa riflettere e richiama tante situazioni a noi contemporanee. L’essere umano è un animale sociale e la vita non è facile quando vengono recisi i legami sociali: ben pochi individui hanno la forza di conservare la propria integrità, se il loro status sociale, politico e giuridico è del tutto indefinito. L’assimilazione stride e va comunque male: si rischia di diventare paria sociali o, all’opposto, si diventa parvenu.
Il breve testo We Refugees fu pubblicato per la prima volta nella rivista “The Menorah Journal”, numero del gennaio 1943 (pagine 69-77), Arendt lo scrisse in inglese (contiene espressioni in tedesco e francese), probabilmente di getto, passando dal “noi” all’io narrante, ed è stato poco o nulla valutato per decenni. Era fuggita dalla Germania nazista nel 1933 ed era perigliosamente giunta infine a New York nel maggio 1941, ottenendo la cittadinanza americana solo nel 1951, 18 anni di apolidia, dopo essere stata tedesca e continuando a essere da tutti considerata solo ebrea. Di Cesare ha curato la traduzione e le poche chiare relative note esplicative (a fondo pagina), l’efficace complete postilla biografica finale e, nella parte centrale dell’agile volumetto, un lungo intenso colto saggio di commento, Hannah Arendt e i diritti dei rifugiati, ovviamente la parte più corposa e attuale dell’intera pubblicazione.
Arendt narra la propria condizione con freddezza, quasi dall’esterno: fra loro si chiamavano “nuovi arrivati” o “immigrati”, avrebbero voluto non essere definiti “rifugiati”. Rifugiato poteva essere considerato solo chi era costretto a chiedere asilo o per le azioni compiute o per le proprie opinioni politiche, invece loro non avevano commesso alcun atto reprensibile e la maggior parte non si sognava neppure di avere opinioni radicali. Avvenne, invece, che negli anni Quaranta del secolo scorso il termine “rifugiato” si ampliò di significato, riferito a quelli tanto sfortunati da arrivare in un altro Paese privi di mezzi, semplici immigranti di fatto che avevano perso tutto (dimora, lavoro, lingua, parenti), “una nuova specie di umani” ovvero quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici, chiusi fuori dove abitavano, messi dentro (fuori dal resto) dove sono in qualche modo arrivati, da tutti comunque considerati estranei, scarti, tecnicamente apolidi per quanto sia umanamente inconcepibile sulla Terra. E con una inevitabile pericolosa disposizione alla morte, inclini al suicidio.
Di Cesare è una profonda conoscitrice della “filosofa più significativa del XX secolo” e ne ripercorre il filo del ragionamento autobiografico, riprendendo Kant, aggiornando concezioni e dati, illustrando la vita relazionale e intellettuale dell’autrice (prima della fuga, durante l’angosciante apolidia, nell’autorevole carriera universitaria), valutando il contributo filosofico di Arendt per l’insieme delle opere, giustamente convinta che il testo del 1943 mostri un’acuta capacità descrittiva dei fenomeni storici e contenga spunti di prospettiva di sapiente attualità. “Gli avvenimenti degli ultimi decenni avvalorano la profezia di Hannah Arendt: il numero dei rifugiati nel mondo è andato aumentando in maniera esponenziale. Se si aggiungono gli apolidi, i richiedenti asilo, gli sfollati interni, i migranti, il numero sale vertiginosamente… Il popolo dei rifugiati si muove mettendo inevitabilmente in questione le frontiere dell’ordine mondiale”.
Da approfondire e meditare, sia Arendt che Di Cesare. Certo siamo nel campo decisivo della filosofia politica con minore attenzione all’indispensabile filosofia della scienza, qualche osservazione di Arendt è inevitabilmente datata, qualche spunto di Di Cesare sull’evoluzione e sul migrare appare superficiale, senza inficiare la complessiva articolata disamina di questione cruciali. Segnalo che qui si è già molto ben spiegato che Arendt non fosse un caso isolato nel 1943 e che nel luglio 1938 si ritrovarono in Francia ben delegazioni ufficiali di 32 paesi aderenti alla Società delle Nazioni per una Conferenza internazionale (fortemente voluta dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt), che si mostrarono incapaci di affrontare l’emergenza creata dalle leggi razziali in Germania (soprattutto per le comunità ebraiche), visto che furono ribadite le norme protezionistiche contro gli stranieri e furono favorite quelle “terre di nessuno” (campi di internamento) denunciate poi da Arendt: qui con attenzione specifica agli ebrei, ovviamente.
Ancora oggi la sfuggente mortificante condizione di apolidia emerge nelle proprie specifiche dimensioni collettive, anche nel nostro paese, oppure individualmente straordinarie, per esempio nello sport (il caso del campione NBA Giannis Antetokounmpo, già apolide greco, in una complessiva vicenda di inclusione:). Arendt ci induce ad approfondire il tragitto storico e comparato di termini, definizioni, descrizioni e contesti come quelli di apolidia, fuga, esilio, asilo, cittadinanza; e l’evoluzione dell’umano migrare, sia forzato che un pochino più libero. Va favorite l’interdisciplinarietà scientifica. Avvocati e filosofi che non sanno o non si documentano su biologia e scienza fanno peggio il loro mestiere. Non serve essere professionisti ma consapevoli e aperti: l'insieme delle analisi teoriche su metodi, differenze, risultati, implicazioni, evoluzioni delle singole discipline scientifiche va sempre tenuta in considerazione, almeno con qualche punto interrogativo o verbo congiuntivo in più.
Purtroppo quasi ogni disciplina usa senza griglia critica lemmi e aspetti del fenomeno migratorio vitale e vegetale, animale e umano, antico e moderno, come se fosse scontato capire cosa davvero sia e non fosse indispensabile sottolinearne i caratteri diacronico e asimmetrico. Studio da un ventennio i diversi significati del migrare, leggendo di ecologia e biologia evoluzionistica, chimica e fisica, botanica e zoologia, etologia e antropologia, genetica e archeologia, geografia e demografia, linguistica e storia, economia politica e psicologia comportamentale, diritto e sociologia, e poi filosofia della migrazione e letterature migranti, notizie d’attualità che ogni giorno da decenni inducono l’informazione giornalistica a titolare su clamorose emergenze immigratorie. Scrivo e dibatto, relaziono e illustro, recensisco e commento.
Ho provato a presentare un’indisciplinata introduzione multidisciplinare: non vengono quasi mai abbastanza sottolineati i nessi evoluzionistici dell’interconnesso fenomeno migratorio delle specie animali, considerato o uno spettacolo pirotecnico da ammirare o un fatto storico conchiuso, comunque teoricamente e praticamente separato da quello umano. Ciò è foriero (per vari studiosi) anche di molti fraintendimenti sulla specificità umana. Parlare di evoluzione significa parlare di filosofia e di politica, non solo di biologia e di scienza. Non si può considerare il migrare un fenomeno naturale ineluttabile, da segnalare rapidamente giusto prima di dedicarsi poi alle cose serie, siano esse questioni di evoluzione biologica e culturale oppure di politica e filosofia. Le migrazioni vegetali e animali vengono prima di quelle umane non solo come dato cronologico, ma anche come dato interpretativo. Il fenomeno merita studi comparati e teorici, non solo riferimenti esperienziali a evidenze della ricerca scientifica. Appare e scompare negli ecosistemi e fra le specie, non si è ancora bene capito come e perché; né è stato finora possibile per gli umani valutarlo e gestirlo bene, con le buone o con le cattive, con la ragione o con la forza, solo chiudendosi o accogliendo.
La lenta contraddittoria conflittuale svolta stanziale del Neolitico sapiens riguarda anche l’oggi, le migrazioni e l’apolidia. Divenire residenti significa costruire vie meno impervie, strade per “uscire” ed “entrare”, coniugando territorio e cittadinanza. All’inizio la maggior parte degli umani restò fuori dai confini degli Stati antichi. Le città e i popoli furono poi figli di un modo di produzione agricolo infrastrutturato e infrastrutturale, un reticolo di coltivazioni e costruzioni, un intrico di strade interne e verso l’esterno (spesso tracciate e presidiate), uno scambio (almeno) continentale di tecniche e idee, manufatti e beni, batteri e germi. Da ogni viaggio si porta un nuovo seme, un nuovo alimento, un nuovo cibo, inaugurando il meticciato alimentare che dura ancor oggi.
Stanzialità agricola e socialità istituzionalizzata consentono l’irruzione del confronto e della politica nelle dinamiche interne ai gruppi umani e fra popolazioni. In ogni ambito si elucubra, si valuta, si sceglie in forme collettive decisive per la vita della comunità. Ciò vale per la filosofia e per le altre culture del pensiero, per la religione e per ogni scienza sociale, la loro preistoria non può prescinderne. Ebbene, migrare diventa un fatto eminentemente politico, emergono più liberi comportamenti migratori individuali, parentali e sociali in un contesto di politica delle migrazioni e di politiche migratorie: partenze e arrivi incentivati o vietati; collocazione identitaria di lingua, religione, organizzazione; deportazioni, esodi, apolidie e schiavitù di massa. Negli ultimi undici mila anni l’evoluzione dei sapiens diventa soprattutto incrocio di emigrazioni e immigrazioni di popoli, talora di popoli in permanente migrazione; si pensi agli ebrei, dispersi sul pianeta pur con forte preferenza endogamica; popoli comunque meticci, pur loro malgrado.